Richiesta ufficiale di pagamento borse di studio per tutti i dottorandi dal secondo anno in poi

All’attenzione della dott.ssa Simona Pigrucci
Dirigente Servizio Front Office



Io sottoscritto Mario Orefice, dottorando di ricerca ammesso al secondo anno del XXV ciclo di dottorato di ricerca in “Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo”, facendo da semplice cassa di risonanza per tutti i miei colleghi degli altri dipartimenti che, per questioni personali, familiari e/o di semplice sopravvivenza, dipendono in maniera sostanziale dal pagamento (prescritto ed impostato secondo cadenza mensile) della borsa di studio assegnataci a seguito della definizione (e successiva pubblicazione) di una graduatoria ufficiale di merito e spettanteci di diritto per tutto il periodo di svolgimento del dottorato. Chiedo, innanzitutto, che si valuti la decisione di accorpare (con l’ipotesi malsana di rimandare all’inizio dell’anno prossimo) i pagamenti previsti per il mese di novembre e/o dicembre come la precondizione per la nascita di uno stato di vera e propria emergenza per tutti quei colleghi la cui sopravvivenza dipende dal pagamento cadenzato della borsa di studio. Borsa che deve smettere di essere considerata come opzionale e, come tale, sacrificabile e/o elargibile a discrezione di chi è preposto all’espletamento di tali pagamenti. Per molti di noi la borsa di studio è, a tutti gli effetti, equiparabile ad uno stipendio. Per cui anche solo l’idea di effettuarne un pagamento variabile e discontinuo e/o sulla base di esigenze burocratiche/fiscali si configura come un’autentica aberrazione. Che, come tale, ci impedirebbe di svolgere anche le normali attività di studio, didattica e ricerca. D’altra parte, nel “Regolamento dei corsi di dottorato di ricerca presso L’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo (ai sensi dell’art. 4 della legge 3 luglio 1998, n.210)” non vi è, nello specifico, alcun riferimento alla presenza di una tempistica che regoli sia il passaggio dei candidati dal primo agli anni successivi sia, d’altra parte, la trasmissione all’ufficio amministrativo (e, dunque, alla ragioneria d’ateneo per la predisposizione dei pagamenti) dell’avvenuta ammissione/non ammissione dei dottorandi espressa dal collegio docenti dei Dipartimenti cui i vari dottorandi fanno abitualmente riferimento. Le uniche scadenze esplicitate si riferiscono alla valutazione dei dottorandi prossimi alla conclusione del proprio ciclo, ovvero, alla discussione della tesi di dottorato (si veda l’art. 8 del presente regolamento ai commi 3 e 4). Dato quanto detto fin qui, si richiede nell’immediato:
- una regolarizzazione dei pagamenti delle borse di studio per tutti i dottorandi che, come me, stanno affrontando il passaggio dal primo al secondo anno. Una regolarizzazione che tenga conto sia dei rischi e dei disagi economici ed esistenziali conseguenti il mancato pagamento per tutti quei dottorandi che hanno potuto contare sin dall’inizio su di un pagamento a cadenza mensile e, d’altra parte, della necessità (non rappresentante certo una questione di sopravvivenza, ma, per questo non meno degna di immediate azioni di riforma!) di modificare un regolamento che, non solo riguardo il nodo oggetto della presente comunicazione, sembra mostrare il fianco a ben più di semplici ed isolate obiezioni.



Cordiali saluti,


Mario Orefice

Ricognizione della nottata televisiva e qualche consapevolezza datati 17/10/2010

Oggi mi sono svegliato con ancora in testa le parole e le facce dei programmi televisivi della sera prima. Mi è passato per un attimo davanti agli occhi la faccia di Sallusti (che, per associazione simbolica, mi ricorda un pò quella di Gasparri, anche lui presente!) a Ballarò che cerca, con una caparbietà ammirevole, di difendere in tutti i modi il suo editore. Lo ricordo piegato tra le spalle, curvo, ma, estremamente pungente nei commenti ai temi del dibattito. Abbiamo accumulato ormai una conoscenza profonda di questa classe di buffoni di corte che fanno di tutto per restare schiavi-dipendenti di un padrone. C’è chi il potere soffocante lo respinge. Chi, al contrario, quell’aria la respira a pieni polmoni. E credendo di trarne degli effetti venefici, salutari. Ricordo l’immagine di una sinistra (sempre a Ballarò) stanca, confusa ed un po’ urlatrice. Non voglio pensare che quel ritorno alla “giusta alternanza” tra le parti, che ci auspica negli ultimi tempi, si concretizzi solo sul piano dello stile politico. E’ certamente vero che la stanchezza e l’estenuazione portano con sé reazioni e comportamento assimilabili a quelli di una certa parte politica. Ma la sinistra non deve mai dimenticarsi che le frasi urlate, l’innalzamento indiscriminato dei toni per azzittire, l’illustrazione di contro-argomentazioni che contengono al loro interno sempre, comunque un attacco diretto alla vita personale degli avversari-bersaglio. Ecco, tutte queste cose lasciamo che tramontino con i loro principali esponenti. La ri-strutturazione di un principio di alternanza tra le parti necessità, come sua imprescindibile pre-condizione, di un accordo di tipo culturale (linguistico, semantico e, in parte, simbolico) tra i contendenti politici. Procedendo nei ricordi della serata televisiva, mi imbatto (mio malgrado) nella puntata di Matrix intitolata “mondo porno”. La puntata ruotava, sostanzialmente, intorno ad un caso giudiziario che, nei giorni scorsi, aveva coinvolto direttamente una famosa pornodiva. La quale ha dovuto scontare anche una pena di alcuni giorni di carcere. E’ stato proprio lì che ho capito che tutta la macchinazione finalizzata alla costruzione di programmi che ci trasportino letteralmente fuori dalla realtà è, in buona sostanza, un enorme sistema razionale che cura fin nei minimi dettagli il confezionamento di programmucci ad hoc per attirare l’attenzione di un pubblico lobotomizzato, disattivato nelle funzioni biologiche e cerebrali. In quei continui riferimenti, diretti ed indiretti, alla sessualità. Alle capacità prestazionali del maschio, alle proprietà seduttive della donna moderna post-capitalista. Alla necessità o meno di impartire lezioni di sesso agli adolescenti, nei licei. Senza rendersi conto che quel programma rappresenta l’ennesimo passo in avanti in quell’incessante processo di devastazione dei corpi e delle coscienze, condotto soprattutto ai danni degli adolescenti, dei più giovani. Razionalizzare in una discussione televisiva un tema così delicato come la scoperta del proprio corpo, la costruzione di bisogni relazionali ed affettivi è un po’ come distruggere tutto questo, annientarlo, svalutarlo. A fare da co-autori di questa immensa devastazione psichica c’erano, tra i vari attori porno (forse, gli unici ancora vagamente innocenti rispetto a questa opera di demolizione pre-programmata), Sgarbi e lo psicologo nazional-popolare di turno e l’autore di un libro, una sorta di “viaggio nel mondo del sesso” in cui, udite spettatori, lo scrittore rivela l’esistenza e la frequentazione diffusa di locali hard, privè e strip club in tutto il territorio nazionale. Incredibile. Raccapricciante, invece, la leggerezza con cui tutto questo è ancora ed ancora detto, o meglio, sbattuto in faccia al pubblico. Senza cura e rispetto non solo verso i più giovani (cui, con queste uscite di pessimo gusto, non si fa altro che sottrarre spazi di libertà, auto-determinazione ed imprevisto che connotano, da sempre, esperienze personalissime come l’approccio al sesso ed alle dinamiche relazionali, ecc…). Leggerezza, come è ovvio, anche nel non tenere nella ben che minima considerazione il fatto che il resto del paese sta andando da tutt’altra parte. E non voglio parlare della solita fra setta “dobbiamo interessarci alle cose della gente”, quella preferisco lasciarla agli esponenti del centro-sinistra. Parlo della necessità reale di una rivoluzione culturale che sia capace di cambiare, da subito, le condizioni materiali dell’esistenza di tutti. E, solo dopo, sarà in grado di implementare anche il cambiamento dei mezzi d’informazione. La crisi non è né nata dentro la televisione né, allo stesso modo, possiamo pensare che venga risolta da un mezzo. Che per quanto gestito, lottizzato, contrattato, abusato, resta pur sempre uno strumento di trasmissione. Sono pienamente d’accordo con una mia collega quando afferma che la politica è, in qualche modo, parte di un dominio culturale. La cultura (i comportamenti quotidiani, il rispetto delle regole di convivenza civile, le abitudini di vita e di consumo) rappresenta la premessa fondamentale per la costruzione ed il governo sano, giusto ed equilibrato delle istituzioni. Di questo paese come di tutti gli altri. Ad ogni modo, la serata si è conclusa con la più bella delle sorprese: una incredibile intervista di Serena Dandini all’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Oltre ad essere stato uno di quelli che ha combattuto la seconda guerra, a contribuire alla ricostruzione della democrazia di un paese devastato dalla guerra, a vivere una brillante carriera politica. Scopro, nel corso di un dialogo pacato e commovente con la conduttrice di “Parla con me”, che Ciampi è stato un insegnante. Ecco, quel dato mi mancava. E mi è servito non solo per capire meglio la persona (di cui pure ho avuto esperienza dato che ero alla fine dell’adolescenza nel corso del suo ultimo mandato), ma, per comprendere meglio il significato della sua condotta politica e, cosa non meno importante, delle sue parole. In modo particolare, mi ha colpito la lucidità con cui l’ex presidente istituiva una precisa connessione tra il possesso di cultura, la crescita personale e la costruzione di una solida coscienza politica (e di un senso delle istituzioni). “La scuola ai miei tempi- ricordo ancora le parole- non era un luogo in cui si apprendevano semplicemente nozioni. Quella scuola che ricordo io, fatta di dialogo e di confronto, era un posto in cui si cresceva come studenti, ma, soprattutto come persone”. A questo punto, sarebbe bello se questa missione educativa e (ri)formatrice (delle coscienze, delle relazioni, dei processi mentali) divenisse parte integrante dei massimi obiettivi di uno stato e di una società così martoriati.

Riflessioni libere sulla vicenda di Paola Caruso

Stavo pensando alla storia di Paola Caruso, la giornalista precaria del Corriere della Sera (redazione economia) che ormai da quattro giorni porta avanti uno sciopero della fame in segno di protesta per la sua condizione e, in particolar modo, dopo essersi vista “scavalcare” da un ragazzo più giovane di lei che, appena uscito da una scuola di giornalismo di Milano, è entrato al Corriere occupando un posto che Paola riteneva suo di diritto. Ho letto alcune cose sulla vicenda ed ho sviluppato una serie di idee sulla questione che vorrei condividere con voi.

- Ritenere, come ha affermato la stessa ragazza precaria (perché di una ragazza di quasi trent’anni si sta parlando) che dopo sette anni di gavetta era giunto il suo momento mi sembra un atto quanto meno presuntuoso. Confondere le rivendicazioni di una intera generazione di precari con il diritto ad occupare un posto liberato da un giornalista in pensione è, allo stesso modo, ingiusto, presuntuoso ed avventato;

- Avviare uno sciopero della fame, alimentando una forma di protesta certamente clamorosa non fa per niente bene all’immagine pubblica di questa massa di precari. Sempre rappresentati come meritevoli, intelligenti ed assolutamente disperati, pronti a tutto. Non mi sembra questo il modo di risolvere le cose, portandole nella dimensione più ortodossa, violenta ed estrema possibile. Evitiamo di renderci co-protagonisti di questo enorme processo di devastazione dei principi democratici su cui dovrebbe reggersi la società, così, come il mercato del lavoro che ne rappresenta una costola fondamentale. In fondo, non era proprio questo “esercito” di giovani e meno giovani disincanti e disillusi sul loro futuro che da sempre ha provato a battersi per un mondo diverso, migliore di quello attuale?;

- C’è una certa uniformità di pensiero ed azione all’interno di alcuni siti di social network che, in certi casi, alimentano un meccanismo di amplificazione ingiustificata delle notizie e dei fatti che vi trovano ospitalità. “Il popolo di Facebook” prima (terribile espressione), i blogger e Friendfeed dopo, hanno permesso all’ennesima precaria di questo mondo di guadagnare immediatamente in fama e notorietà. Perché? La ragazza sapeva e sa benissimo di ritrovare in queste piattaforme di socializzazione un “pubblico amico”, che vive spesso la sua condizione (magari in altri settori lavorativi) e, così, la pubblicizzazione di un gesto estremo si è imposto come il fatto principale degli ultimi quattro giorni. E lo è diventato con una rapidità ed una penetrazione on line che solo la solida “compattezza di classe (degli utenti di Sns)” avrebbe potuto garantirle. Per cui, quando P.C sostiene pubblicamente che il “popolo della rete” è con lei, parla di una classe di utenti interoconnessi a causa delle medesime condizioni di vita e, dunque, degli stessi sentimenti. Sentimenti che, in casi come questo, potrebbero prendere facilmente il sopravvento e portare un po’ tutti a solidarizzare del tutto con la ragazza (anche con gesti/toni/iniziative clamorose) senza considerare, ad esempio, che se Paola avesse ottenuto il suo posto nella redazione del Corriere della Sera, difficilmente avrebbe deciso di rinunciare al suo bel desk per unirsi e, magari, avviare una protesta nazionale in difesa dei diritti dei giovani lavoratori precari. Se lo avesse fatto, sarebbe stata degna di nota e notorietà:

- Se penso al modo in cui si comporta la classe dei blogger più noti, non posso non ravvisare il fatto che questi soggetti hanno oramai formato una solida casta borghesi di autori più o meno autorevoli. Per cui, per ottenere considerazione e spazio tra le loro pagine devi: essere oggetto di un fatto/avvenimento di cronaca davvero rilevante o, in alternativa, essere uno che scrive da anni ed anni e/o essere un loro amico. Per cui, anche qui, proviamo a rinunciare ai toni entusiastici così come a millantare la presenza di masse di cittadini liberi che scrivono, pensano, appoggiano. La “casta” dei blogger nel nostro paese, rappresenta una classe di potere capace di settare l’agenda dei temi rilevanti per la rete. E lo fa, né più né meno che come avviene con gli editori della vita off line. Per cui, mi domando: dove sono i grandi numeri che sostengono Paola?, ma, anche: dove sono finite la libertà di giudizio ed espressione che si ritenevano strutturalmente legate all’avvento della rete? Non è che ci siamo nutriti un po’ tutti (fino ad oggi) solo di una grossa illusione di massa?

- In fine, credo ci siano ben altri modi di risolvere una questione che, ad oggi, rappresenta la condizione di (non)vita di milioni e milioni di persone, anche più anziane e con più anni di precariato alle spalle di quanti ne abbia Paola. Se decidere di smettere di nutrirsi sembra, quanto meno alla ragazza, l’idea migliore per risolvere un problema congenito del mercato del lavoro, le questioni sono due: o la ragazza è così ingenua da credere che un gesto di disperazione possa risolvere le cose (se si batte per una classe di milioni di persone), o in alternativa, è così frustrata dall’idea di essere stata sorpassata da un collega (che, per quanto giovane, aveva ed ha tutto il diritto di essere assunto o sottoposto a una qualsiasi forma di assunzione contrattualizzata) che le ha soffiato il posto da ritenere il digiuno la forma migliore di farsi rispettare ed imporre all’attenzione “pubblica” il proprio caso:

- Poi ci si lamenta dei posti “riservati” alle persone solo sulla base di criteri di anzianità che sembrano valere ancora ed esclusivamente nel nostro paese. Che ci sia bisogno di aspettare che il collega più anziano vada in pensione per occuparne il posto rappresenta un meccanismo distorto, sbagliato. E mi sembra di capire che questa giovane precaria si batta più per la fluidificazione di un meccanismo distorto, ingiusto e sbagliato che per una autentica rivendicazione dei diritti di una classe senza futuro. Sarei quasi tentato di sostenere che questi gesti, queste persone, queste parole non fanno altro che rendere tutti noi (giovani precari) niente altro che tenera carne da macello per chi voglia comprarci, prometterci successo, illuderci di fare carriera. E se ciò non accade? Allora basta battere i piedi, salire sui tetti, pubblicare le foto della propria “pesata “ quotidiana per dimostrare un costante calo di peso per allarmare tutti, creare il caso, risolverlo con “l’intervento straordinario”. E poi? Toccherà al nuovo precario di turno trovare un modo alternativo di diventare famoso, star (o starletta) di una massa informe di poveri. Flessibili che lottano contro il proprio capo tutti i santi giorni. E che tutti i giorni cercano di fare bene il proprio lavoro per sperare (non pretendere) di migliorare la propria condizione lavorativa e, con essa, anche la propria esistenza (individuale e di coppia). Paola avrebbe dovuto pensare che è già stata molto fortunata ad essere entrata nella redazione di un quotidiano nazionale di questa portata prima che la crisi del giornalismo scoppiasse con tale e tanta violenza da decimare redazioni, giornali e posti di lavoro. Avrebbe dovuto pensare che nelle redazioni dei giornali (specie quelli importanti) ci sono gerarchie durissime, principi di cooptazione ed anzianità solidissimi (non lo scopriamo oggi, grazie a Paola, come funziona il mondo-casta del giornalismo). Avrebbe dovuto riflettere sul fatto che sette anni di gavetta non sono certo pochi, ma, nemmeno tanti. Paola avrebbe dovuto pensare a quei precari che cambiano lavoro ogni sei mesi e fino a cinquant’anni. Che sono costretti a re-inventare continuamente la propria professionalità, la propria personalità. La propria vita. Paola Caruso avrebbe dovuto pensare meno a se stessa, in nome del rispetto della dignità e della compostezza con cui decine di migliaia di persone (operai, lavoratori di call center, metalmeccanici, co.co.co, stagisti, ricercatori, precari della scuola, dell’università, della fabbrica) portano avanti, con coraggio ed umiltà (e, spesso, continuando a lavorare per sopravvivere e far vivere!), una vera e propria lotta quotidiana per garantirsi un futuro umano, libero da pressioni e scadenze. Nell’ombra e nel silenzio generale.

Una realtà è possibile (forse!).....

Sarà perché mi è sempre stato insegnato che la mediazione per raggiungere un compromesso dovrebbe rappresentare un obiettivo desiderabile in una discussione, in uno scontro più o meno acceso con un collega piuttosto che con un qualunque passante, per strada. Si sa come vanno queste cose, di solito. Quando sei piccolo ti scontri (e ti scotti) con la realtà del tuo comportamento ancora grezzo, privo di diplomazia. Le prime grandi delusioni, i primi scontri che rompono definitivamente amori ed amicizie. Così, nel giro di poco tempo ti ritrovi a fare i conti con la solitudine, la frustrazione, la scarsa capacità di farsi capire, comprendere. E pensi sia tutta colpa di chi ti sta intorno. Sbagliato anche questo. Ognuno è, in un modo o nell’altro, il prodotto degli stimoli e delle esperienze di vita che lo attraversano e che non proprio sempre desideriamo e/o possiamo controllare. Le strade che si prospettano di fronte a noi, a seguito del parziale fallimento prodotto dal nostro comportamento, sono due: radicalizzare quel comportamento grezzo, duro e severo verso gli altri e verso se stessi, oppure, decidere di dare un taglio col passato ed incominciare a considerare gli altri (e se stessi) con maggiore serietà e dignità. Ecco, oggi penso (e sono assolutamente convinto) che si stia assistendo ad un vero e proprio regresso in questo senso. E certamente non bisogna essere degli acuti osservatori (o dei ricercatori) per accorgersene. Lo noto nella mia quotidianità, nel comportamento delle persone che mi circondano più o meno casualmente. Lo noto nel tono dei dibattiti politici che ritrovano una puntuale eco tra giornali, tg e programmi di approfondimento. C’è sempre, in ognuno di questi contesti di vita, un enorme semplificazione dei termini del dialogo ed ampio spazio è lasciato allo scontro, all’accavallamento di voci, all’aggressione quasi fisica. Sembriamo bambini impacciati che, per farsi notare dagli altri, piangono e battono i piedi per terra quasi disperatamente. Questa stessa disperazione la vedo negli occhi e nei comportamenti di politici e presentatori tv. La ricerca quasi spasmodica e masochistica della violenza. Violenza di linguaggio, di oggetti di consumo, di comportamento, dei simboli. E la cosa più orribile di tutto questo e che respirare continuamente questo clima saturo di cattiveria, di scontro senza limiti ha sporcato non solo il dibattito pubblico, ma, anche l’anima (e la coscienza) di tutti coloro che vi assistono, vi vivono e vi prendono parte. Non potrò mai togliermi di dosso l’odore (meglio, la puzza) degli scontri tra i miei genitori poco prima che si separassero. Erano giornate, settimane, mesi in cui inalare costantemente stress, tensione nell’aria ti portava ad alienarti quasi completamente dal resto del mondo, svuotandoti di tutto ed agendo dall’interno. La violenza ti penetra e ti ripulisce di qualsiasi tratto di vivacità. Se pensiamo di poter adottare anche per l’analisi dei comportamenti sociali questa metafora biologica, allora, siamo capaci di fare un piccolo passo in avanti nella conoscenza di quello che sta succedendo attorno a noi spettatori passivi di questo sfascio. La polarizzazione estrema delle idee domina i salotti televisivi. Stragi, abusi, accessi indiscriminati alla vita personale di personaggi balzati all’attenzione pubblica come “mostro”, “terribile orco”, o, al contraio, “eroe”, “simbolo”, “icona”. Ma cosa si intende dire quando si usano con una straordinaria frequenza termini di questo tipo? Non si pratica una violenza semantica che confonde tutti e, anzi, punta sulla confusione per rimestare le acque e, nel frattempo, alimentare gli interessi di qualche magnate delle comunicazioni. Il quale ha ben compreso che sviluppando un meccanismo su grande scala per la produzione sistematica di oggetti culturali (testi, storie, notizie giornalistiche, ecc..) violenti e destinati ad una fruizione passiva di massa non fa altro che velocizzare quel processo che svuota il pubblico della anche minima voglia di reagire col pensiero razionale agli abusi che vengono giornalmente perpetrati a danno della sua mente. Non ce ne stiamo ancora accorgendo, ma, tutto questo ci sta uccidendo da dentro. Ci stanca, e sfibrandoci si impossessa di noi, ottenendo un’approvazione assolutamente priva di ostacoli. Un vero e proprio investimento sull’assuefazione di massa attraverso l’abominio delle comunicazioni. Un investimento con pochi rischi e strutturato sulla diffusione virale di rabbia, dialettiche accese che confondono i campi istituzionali e, con essi, la mente delle persone. Lo stordimento che anticipa la morte. Detto ciò, voglio esprimere il mio odio più profondo e maturo verso i continui attacchi all’intelligenza delle persone portati avanti da un sistema di cose (media, politici, comunicazioni di massa) che non ha mai smesso di considerare l’essere umano niente più e niente di meno come una risorsa strategica. Insomma, poco più di quello che rappresenta un pieno di diesel per un autovettura. Carburante che, una volta consumato, permette al sistema di muoversi e, così, di restare in vita. Dunque, sono stanco di fare da carburante a qualcuno. O anche solo di essere considerato così. D’altra parte, auspico che questa condizione di malcontento giunga ad un livello di devastazione delle coscienze tale da riuscire ad alimentare la diffusione di una comune necessità di cambiamento. Ma, dall’altr parte, penso che il livello di addormentamento sia tale che ci vorrà probabilmente ben altro (e di peggio) per risvegliare le famose “coscienze sopite”. In fine, quest’approccio violento all’esistenza, prima che ci conduca ad una crisi di nervi, dovrà essere immediatamente rimpiazzato dalla ricostruzione dei termini del dibattito. Pubblico e privato. Il che sarà impossibile da realizzare finchè avremo di fronte, sul palco e nello schermo, le stesse inutili persone che hanno tentato di ridimensionarci. Bah, l’unica cosa che viene da pensare è molto vicina alla rivoluzione. Anzi, rileggendomi sembro una specie di rivoluzionario neo-comunista post-democratico. In realtà, ho fatto riferimento esclusivamente alla mia anima, ai miei pensieri. Perché penso che qualcuno prima di me sia vissuto in una società che, in qualche modo, era migliore, più sana. E, in ultima analisi, perché credo ancora nel potere e nell’inevitabilità dei principi universali che regolano il vivere quotidiano (la libertà di parola ed espressione, il diritto alla privacy, l’autonomia degli organi istituzionali, il rispetto e la concordia tra le persone, ecc…). Principi che ritengo ancora più importanti di maggioranze ed opposizioni, colori politici, alleanze politiche ed orgie partitiche, destra e sinistra. Smettiamola di desiderare con un’ansia che non riusciamo nemmeno più a spiegarci che ci investa un’altra Avetrana, plastici di case e garage, giudizi affrettati e scandali. Usciamo da una dimensione della realtà per sviluppare finalmente uno sguardo che abbracci e comprenda tutto il resto. Facciamolo in modo sereno, ragionato, profondo.

U2, Torino....quante emozioni!!.....

Ma secondo voi cosa si può provare alla visione di un gigantesco polipo, alto circa cinquanta metri, capace di sovrastare la struttura di uno stadio che, per quanto alta, sembra una costola di quella enorme impalcatura. Si, era una specie di grosso polipo piantato su quattro gambe altissime e completamente foderate di casse. In quel palco c’erano casse di dimensioni e forme che non avevo mai visto in vita mia. Uno spettacolo totale, un sound 5.1, un’esplosione di polifonie. Incredibile. Io e mio fratello eravamo in curva Sud, dalla quale potevamo vedere tutta la passerella che avrebbe condotto Adam, Larry, Bono ed Edge dritti dritti al palco. Palco?....diciamo all’installazione, anche se mi sembra ancora riduttivo. Quella specie di retro-palco, fino all’arrivo della band, era attraversato da una vera e propria marea multicolore di operai, tecnici, guardie di sicurezza, polizia, carabinieri, croce rossa, pompieri. Da questo enorme e frenetico andirivieni si riusciva a carpire la sensazione netta che qualcosa di unico stava per accadere sotto i nostri occhi. L’altro elemento in grado di restituire la stessa sensazione era il fischio incessante di macchine e camionette delle forze dell’ordine che, sin dalle prime ore del giorno, hanno iniziato a strombazzare a tutta velocità proprio sotto il nostro albergo. Poco distante dallo stadio Olimpico. Una intera città mobilitata, trasporti e mezzi pubblici canalizzati per una giornata. Percorsi stradali bloccati e deviati, tendopoli allestite al momento, pranzi improvvisati negli spazi di verde pubblico. Una città letteralmente trasformata da un evento della durata di poco più di due ore. Sarò pazzo, ma, per me tutto questo ha avuto ed ha un fascino incredibile. Sono quelle sirene di primo mattino che, miste all’emozione incontenibile, ci fa svegliare piuttosto presto. Colazione, preparazione, scorte d’acqua e via alla volta dello stadio. I primi duecento metri siamo praticamente soli. Poi, come in una gag televisiva degli anni cinquanta, vediamo un nugolo di persone imitare i nostri movimenti, imboccare le stesse strade. Sbirciare sulla cartina della città esattamente nello stesso momento in cui lo facevamo noi. Si iniziava a respirare l’eccitazione per il concerto. In pratica, arriviamo nei pressi dello stadio che siamo in cinque e, in pochissimo tempo, diventiamo amici di una coppia romagnola con cui ci scattiamo delle foto quasi fossimo amici di vecchia data. Ed è una sensazione di condivisione assolutamente straordinaria. Ci si guarda gli zaini, ci si consulta sui prezzi di acqua, sciarpe, magliette, felpe, birre sfuse o in bottiglia. E ci si parla guardandosi negli occhi e quasi giocando a cogliere le emozioni uno dell’altro. Qualcosa che tradisca quel dialogo fintamente lucido e lasci trasparire l’emozione, la follia dell’attesa estenuante, il calore della passione. Riusciamo ad entrare intorno alle cinque del pomeriggio. La salita delle scalinate ci gioca un brutto scherzo. Appena superata, ci svela la struttura mastodontica. I colori, l’architettura, la grandezza rispetto a tutto il resto è capace di lasciarti immobile per almeno cinque minuti. Muto, fisso. La tua mente lascia ancora per una volta la follia delle emozioni e ricomincia a ragionare. Calcoli il numero dei giorni necessari alla messa in piedi del mostro. Lo dividi per il numero di persone impegnate nella costruzione. Aspetta, dividi?. No, riparto. Pensi a quando hai sentito al tg che loro erano a Torino da due settimane circa. Allora, pensi che tutto sto circo sia arrivato con loro. Ma non riesci nemmeno a credere all’idea che quella bestia sia stata tirata su in due settimane. Ma che ce ne siano volute almeno tre, forse quattro. Non ci credi e ti strofini gli occhi. Un po’ per il caldo che ti appiccica le palpebre, un po’ come hai visto fare nei cartoni animati quasi a volerti risvegliare da un sonno magico. Allora, avanzi la tesi dell’assemblaggio. E mi divertivo a pensare come ogni pezzo potesse incastrarsi con tutti gli altri. E dietro quel lavoro mentale da Ikea, cercavo di delineare i tratti di colui ( o coloro!) che avevano pensato e realizzato una cosa del genere. E, alla fine, il tumulto di pensieri ed emozioni offuscava ognuno di questi tentativi. Ci voleva una calma riflessione che non avevo il tempo di concedermi. Non volevo concedermi. Non era quell il momento. Bisogna essere presenti con tutti i sensi a disposizione. Odorare, guardare, catturare con la mente ogni sensazione, ogni sequenza. Ogni piccolo particolare da portarsi dentro. Cartella “concerto U2”, sotto-cartella “cose assurde da non dimenticare - palco”.
Tutto quello che ha avuto luogo in quelle due ore, a dire la verità, non lo ricordo proprio benissimo. Ma so per certo che ho cantato a squarcia gola. I miei occhi saltavano dal gruppo, ai megaschermi, alle persone attorno a me. Visto da fuori sarei sembrato un matto. Magari quella sera lo ero diventato davvero, per un po’. Insomma, tutto il resto non saprei davvero come scriverlo. Dovrei pensare ad un misto di odori, clip video e audio, pezzi di canzone. Creare una sorta di collage di umori per restituire quello che ho vissuto. Ma, forse, meglio di ogni altra cosa, lasciare a voi ed alla vostra immaginazione il proseguo della narrazione, dopo aver messo in gioco gli elementi di contorno, credo sia la cosa più giusta.
O, almeno, così sento di dover fare!!....

Urbino, il golf da spiaggia, l'immagine: quando Leonardo DiCaprio, Aida Yespica, la Tim e il bagaglino penetrano nell'ateneo

E’ oramai sotto gli occhi di tutti che praticamente tutti gli atenei italiani stanno perdendo progressivamente iscritti. Sarà colpa della crisi economica che accorcia i tempi di ingresso nel mondo del lavoro. Sarà colpa delle famiglie che spingono verso l’autosufficienza (effetto “anti-bamboccione!!” da pressione massmediatica!) dei propri figli. Magari è genericamente colpa della società intesa come quell’insieme di istituzioni sociali (la scuola, la famiglia, l’università, una volta anche i partiti) che assieme avrebbero dovuto lavorare alla crescita virtuosa delle proprie, giovani risorse. Verso la costituzione di una nuova classe dirigente che assicuri il perpetuarsi di certe strutture, in parte essenziali per l’evoluzione di una comunità. Ma quando ad essere sacrificato sull’altare di una evoluzione sociale (ed economica) incontrollata è proprio il contetto (e la relativa pratica) della comunità. Viene da sé che tutto il resto va molto velocemente a rotoli. Ed ho un costante senso di angoscia verso una vita che, in parte mi sembra evolversi sotto l’effetto devastante e distorcente delle menomazioni prodotte su di me dalla società; dall’altra, faccio fatica a vedere un futuro per me e per chi è più giovane di me nell’ambito di una società in cui la classe dirigente ha deciso di palesare e schifosamente pubblico quel meccanismo con cui ha perpetrato sempre e solo i cazzi propri!!!...Non c’è futuro. Ci viene risposto che il futuro dobbiamo crearcelo. Quando cambi i connotati di una realtà e, come se non bastasse, ti fanno partire con tanto di handicap. Allora crearsi un futuro assume i tratti di qualcosa di miracoloso!!..Oggi, diciamoci la verità, avere un barlume di prospettiva ti rende un fortunato, un eletto. Per quanto tu possa essere in gamba, intelligente, onesto. Sarai (quasi) sempre e solo un fortunato. Uno che è riuscito in un momento storicamente duro, durissimo. A livello economico, sociale, relazionale, politico. Ma vorrei tornare al discorso sulle istituzioni. E, in modo particolare, al problema delle università. Ho detto prima di un calo endemico di iscrizioni. Nonostante tutto (crisi economica, scolarizzazione in calo, analfabetismo di ritorno), il dato mi ha scioccato. Un vero e proprio dimezzamento. E mi ha stupito ancora di più pensare che la batosta è arrivata proprio nel momento in cui gli atenei sembrano aprirsi alla comunicazione verso l’esterno. Cioè, proprio nel momento in cui (almeno alcuni atenei) sembra si stiano aprendo ad un modo alternativo di comunicare al proprio pubblico di riferimento. Studenti, docenti, potenziali matricole. Abbandonando, allo stesso tempo, quel modo di interagire farraginoso e contaminato dalla burocrazia, tipico delle pubbliche amministrazioni. La strada intrapresa avrebbe fatto sperare certamente in qualcosa di meglio. A questo punto, dunque, il problema genera un bivio. Ossia: o gli sforzi comunicativi compiuti fino ad ora non sono stati sufficienti in termini di risorse impiegate ? oppure, in alternativa, ciò che si è fatto lo si è fatto non solo di rado, ma, fondamentalmente male ?.....Perchè se è vero che le famiglie, la crisi e tutto il resto hanno scoraggiato il proseguimento degli studi che è pur sempre un grosso impegno economico; è vero pure che le università, dalla loro, hanno perso certamente appeal. Sia perché non rappresentano più il volano verso un ingresso “sicuro” nel mercato del lavoro (le distinzioni nelle relazioni socio-economiche di poco tempo fa erano regolate anche dalla variabile costituita dal titolo di studio. Oggi la cosa è evidentemente sfumata); sia perché non sono più in grado di garantire una formazione adeguata alla costruzione di figure professionali dotate di spessore, di reali competenze. Ma qui bisognerebbe aprire un capitolo che parte dalla politica economica del governo in materia di istruzione, università e ricerca (vedi blocco del turn over per le assunzioni nei prossimi tre anni..) per arrivare fino alle più recenti riforme dei corsi di laurea che hanno applicato la logica del “copia e incolla” a dei percorsi formativi. Realtà che meritavano certamente una maggiore attenzione ed una quota notevole di buon senso. Si ha pur sempre nelle mani la vita di interi generazioni di professori, ricercatori che spendono la loro vita per far progredire un ambito scientifico. In alcuni casi, si è determinata l’evoluzione di alcuni settori dell’economia e dell’industria del nostro paese. In cui si fatica ancora tantissimo a capire che la ricerca rappresenta un anello di congiunzione essenziale tra l’industria, la società e quanto c’è di buono e virtuoso all’interno dell’accademia in cui, accanto ai baroni, ci sono migliaia di quelli che un giornalista di Repubblica ha definito qualche settimana fa “i collaboratori invisibili” che, ad oggi, tengono in piedi alcuni dipartimenti. Facendo ricerca, didattica, partecipando a convegni. In sintesi, prestando il loro nome, la loro competenza e la loro stessa vita per far crescere ed implementare il lustro di atenei ancora troppo spesso irriconoscenti nei loro confronti. Tornando al problema dell’appeal. Si comunica evidentemente male, ci si affida alle soluzioni più innovative del marketing, ma, senza la ben che minima sensibilità verso i mezzi, i contenuti, i pubblici di riferimento. Un po’ come l’ondata di comuni e province che, all’incirca un anno fa, hanno aperto canali su YT e profili pubblici su Fb così, per inseguire la moda del momento. Senza badare alla necessità di dover cambiare il linguaggio adottato fino a quel momento. Sviluppare una semantica omogenea al mezzo tecnico adottato. In fin dei conti è una scoperta non proprio recente che ogni mezzo necessita di un proprio registro. Ebbene, con la Rete si è creduto a lungo di poter baypassare questa consapevolezza sedimentatasi nella storia dei media (vecchi e, dunque, nuovi!). E ci è, quindi, lasciati andare ad operazioni promozionali scellerate, costosissime ed inefficaci. Quando il nuovo che avanza si scontra col vecchio, certe volte vecchissimo!! L’ultima di queste minkiate (mi si passi il termine tecnico) in ordine di tempo l’ha prodotta proprio l’ateneo in cui lavoro, all’alba del periodico restyling della propria immagine pubblica. Ovvero, nell’ambito di una campagna di promozione inter-regionale, ha deciso di finanziare (e, dunque, di promuoversi) attraverso l’istituzione di un “beach golf tour”. Si, è proprio quello che ho scritto. Un tour di golf sulla spiaggia. Quando avevo sentito dell’idea, ero già sconvolto. Ma quando, pochi giorni fa, mi è stato inviato il programma completo, con tanto di date e località che ospiteranno le tappe, premi e regolamenti. Lì non ho veramente capito più niente. Oscillo tra il confuso, l’angosciato, l’incazzato e lo schifato. Ma come è possibile credere che un beach golf tour rappresenti un investimento promozionale capace di produrre un ben che minimo ritorno? Poiché immagino che chi ha sborsato, lo ha fatto sulla base di un margine di rischio, ma, anche di guadagno!! E, poi, cosa cazzo c’entra un torneo di golf su spiaggia con un ateneo che ha fatto la propria fortuna sul fatto di essere una piccola realtà arroccata su di una collina ad 800 metri sul livello del mare ? E, ancora, promettere premi, profumi e bambole a dei ragazzi come può fugare le loro incertezze sul corso di laurea da scegliere, piuttosto che sulla sostenibilità economica di una scelta già così importante come la carriera universitaria? Lo si farà tra un mojito, un lancio di magliette ed un colpo di mazza?
Cosa sta diventato l’università quando si comporta come il Free music festival? Oppure, organizza un tour come quello della Tim che sfrutta l’immagine dei ragazzi del programma tv “Saranno famosi”? Dov’è (se ancora esiste) il confine tra queste forme promozionali tipicamente televisive e spettacolari e ciò che accade in realtà istituzionali che dovrebbero, a rigor di logica, sviluppare una preparazione almeno complementare rispetto a quanto “apprendiamo” dai mass media (del tipo “con la tv mi intrattengo e fondamentalmente cazzeggio. Con l’università dovrei crescere a livello intellettuale, come persona!). Il non vedere più certe distinzioni mi mette una gran paura. Ma mi angoscia ancor di più assistere alla dinamica sonnolenta e narcotizzante per cui nessuno (specie all’interno dell’università intesa come “mondo accademico”) si sbatte, urla e manifesta per rivendicare l’esistenza e la giustezza di certe distinzioni.
Distinzioni legittime come quella, ad esempio, nei confronti del mondo dello spettacolo!.....

Facebook, FriendFeed, la cinghialata, le relazioni..ci pensavo un pò...

E’ davvero interessante il modo in cui, proprio attraverso un social network, sia possibile incontrare persone con cui riesci a condividere una visione delle cose che, fino a poco prima, ritenevi fosse tua e di pochi altri. Una ironia ed un modo di affrontare ed interpretare la realtà. Insomma, un livello di condivisione del mondo assolutamente inaspettato. E’ un po’ come una eugenetica delle relazioni sociali. Sviluppi una personalità, cresci, riesci ad implementare un modo (che ritieni personalissimo) di osservare la realtà che ti circonda. E, alla fine, affidandoti ad un social network, riesci a filtrare conversazioni (ed esseri umani) fino ad incontrare proprio quelle persone, che da tutta un’altra parte, hanno sviluppato un percorso parallelo al tuo. Giungendo, come se non bastasse alle tue conclusioni. E lo scopri da subito, nelle piccole battute come nelle conversazioni serie ed apparentemente impegnate. E non puoi che rimanerne sorpreso. Tra in contento, il confuso ed il rattristato se mi fermo a pensare a come la casualità degli incontri venga un po’ messa da parte proprio a vantaggio di una sempre maggiore possibilità (ed apparente libertà) di selezionare la conoscenza, di prevedere la relazione. Non so ancora esprimere un giudizio netto sul potere (malefico o venefico) dei social network in questo senso. Ma, d’altra parte, so per certo che riuscire ad approfittare di un mezzo per aumentare le proprie potenzialità relazionali attraverso la condivisione e la conversazione attorno alle cose del mondo (dal cinghiale al Varnelli alla disoccupazione giovanile in Italia…) costituisce un’indiscussa fonte di crescita. Per l’uomo, per la società e ci metto anche per la qualità delle relazioni umane. A patto che, in tutto ciò, prevalgano ragione, capacità di uso (e giudizio) e buon senso. Perché, per quanto potere possa e potrà mai avere l’interazione mediata da computer, le dinamiche relazionali on line inseguono perennemente quelle off line nel tentativo di includerle (e non solo di imitarle….siamo andati avanti!!). Per cui problemi personali e/o distorsioni caratteriali (anche nelle forme più ortodosse e patologiche) ci sono e ci saranno sempre. In questo senso, è ovvio che gli SNS non sono né un medicinale né, tanto meno oggi, un nascondiglio per sociopatici ed instancabili sostenitori delle nobili virtù della Rete. Se Rete e Realtà smetteranno di essere contrapposte e giungeranno ad identificarsi, sarà comunque nella realtà (a quel punto complessa, ma ad ogni modo, strutturata a partire ed attorno (d)alla nostra personalità/fisicità) che dovremo continuare a cercare noi stessi, le soluzioni ai nostri problemi, le fonti per la soddisfazione dei nostri desideri. Personali, relazionali.

Cerco di ricomporre le idee dopo la presentazione dello scorso lunedi

Dinamiche di costituzione ed (auto)rappresentazione dei movimenti sociali
nei siti di Social Network
(ricostruzione(?) dello speech tenuto durante il primo incontro con il collegio docenti_14/06/2010)


L’analisi dei movimenti sociali potrebbe rappresentare un’utile prospettiva alternativa attraverso cui focalizzare l’attenzione sull’evoluzione storica della teoria generale legata allo studio ed all’osservazione scientifica dei fenomeni in Rete. In modo particolare, attorno al momento di passaggio da una fase “dialettica” nella considerazione e nel giudizio manifesto attorno ed a partire dalle prime analisi sul Web (“realtà vs rete”, “on line vs off line”) ad una dimensione “sintetica” (Rete = nuovo ambiente per la costruzione di relazioni e oggetti/testi capaci di produrre sia effetti “di realtà” che effetti “nella realtà”) mediante la quale anche la rete (e le dinamiche neorelazionali ad essa legate) hanno finalmente assunto dignità ontologica e scientifica. In altri termini, tale passaggio (significativo a livello di cambiamento di paradigma scientifico di riferimento), nella pratica, trova concertazione nel passaggio da un momento in cui il Web veniva considerato soprattutto come uno strumento utile al completamento/consacrazione di relazioni/esperienze/narrazioni che avevano luogo, prima e soprattutto, nella realtà esterna ad essa. D’altra parte, questo ricorso ad una “rete/strumento” ha sempre nascosto un giudizio di valore attorno a tutto ciò che aveva vita nel Web. Si è a lungo insistito, ad esempio, sul raffronto (anch’esso, caduto nella trappola dialettica!) tra legami forti e legami deboli. I primi legati alla lebenswelt, al mondo della vita di memoria habermasiana. Una realtà intesa come spazio per la naturale affermazione della(e) dimensione(i) più “umane” dell’individuo. Un territorio che, nel tempo, si è trasformato (almeno in relazione al proliferare di studi sul Web) piuttosto in un fortino da difendere dagli attacchi a quell’umanità provenienti dal(i) mondo(i) on line. I secondi, strutturalmente differenti, sono stati a lungo considerati di una qualità (e di uno spessore in termini di analisi scientifica) inferiore, perennemente accessoria e di secondo ordine. In questo momento (quello che, per comodità, abbiamo definito “dialettico”) la teoria legata alla sociologia della comunicazione, con particolare riferimento all’approccio tradizionale allo studio dei mass media (tv e stampa in modo particolare) paga evidentemente un doppio dazio. Sia verso se stessa ed un evidente appesantimento che le ha impedito di comprendere subito i margini di sviluppo legati all’evoluzione delle dinamiche di Rete; sia verso lo stato dell’allora evoluzione del Web che, ancora pochi anni or sono, non lasciava presagire con l’attuale nitidezza un successo ed una penetrazione sociale e culturale così decisiva.
Restando, tuttavia, sull’oggetto della presente ricerca (l’analisi delle dinamiche costitutive/evolutive di un movimento sociale in Rete), anche la progressione storica dei movimenti legati alla Rete mostra di aver fatto propria la distinzione tecnico-strategica cui si è fatto riferimento sopra. Di fatti, dall’iniziale nascita ed affermazione dei cosiddetti “movimenti antagonisti”, caratterizzati dalla capacità di fare gruppo sostanzialmente off line e trovare un “fluidificatore organizzativo” nella rete e, in modo particolare, nelle primissime applicazioni web (newsletter, mailing list, primi sistemi di chatting, siti web 1.0). Si pensi, in questo contesto, all’affermazione del primo movimento di proporzioni (potenzialmente) globali: i cosiddetti “No global”. Molti studi (Della Porta 2001, Ceri 2002, Bentivegna 2002) mostrano come, in realtà, esso si sia costituito tra la fine degli anni 80’ ed i primi anni 90’ a seguito dell’aggregazione di numerose ONG presenti negli Stati Uniti ed in nord Europa. L’adozione di sistemi d’interazione mediata da computer (C.M.C) è servita a loro, dunque, solo allo scopo di rafforzare e/o di implementare relazioni nate off line. La potenziale evoluzione di nuove relazioni, d’altra parte, è sempre stata ritenuta un’ipotesi minoritaria e, in ogni caso, in grado di alimentare solo “legami deboli”, nient’affatto strutturati o duraturi. Nel tempo, tuttavia, l’evoluzione di possenti dinamiche organizzative in Rete (si pensi solo agli esempi provenienti dalla rivoluzione iraniana, dai processi di costruzione/circolazione di informazione dal basso e dai flash mobs organizzati a scopo di contestazione commerciale) hanno permesso a quest’ultima, anche grazie all’evoluzione delle ormai note applicazioni collaborative “2.0”, di imporsi come un vero e proprio ambiente dotato di realtà, dignità, credibilità ed autonomia operativa. Dall’altra parte la teoria, che insegue la pratica delle relazioni nate on line, ha consolidato un approccio finalmente capace di tenere assieme i due poli un tempo ritenuti estremi e reciprocamente esclusivi: realtà e rete. Società e tecnologie camminano assieme, in una dimensione permanentemente complementare, co-evolutiva. Tale paradigma, legato alla più tradizionale teoria del modellamento sociale delle tecnologie (si veda, in proposito gli studi di Bell citati in Livingstone/Lievrouw), sembra aver portato a pieno compimento l’approccio di stampo culturologico allo studio dei mezzi di comunicazione (Morin, Eco, Abruzzese) che, nel corso della sua evoluzione storica, ha gradualmente restituito peso scientifico e capacità rielaborativo-creative al destinatario di tali comunicazioni che, ad oggi, viene effettivamente ritenuto capace di “agire” (act) in modo determinante sulle applicazioni di cui è, allo stesso tempo, un normale fruitore (si pensi, in proposito, alla filosofia che informa la nascita e la periodica implementazione di un social network come “Facebook”). Tra gli studi legati a quest’approccio (Reinghold, Silverstone, Ceri, Ito, boyd, Castells) vorrei riprendere quelli sulle culture fandom e le dinamiche di relazione all’interno dei fan groups di Henry Jenkins ed, in modo speciale, due concetti elaborati dallo studioso del MIT. Il primo è quello di “convergenza culturale” che, ribandendo quanto detto in precedenza, sottolinea in modo efficace l’abbattimento di distinzioni (tra realtà e rete, on line ed off line, tra media differenti) e la ridefinizione di un nuovo mondo in cui collocare noi stessi, le nostre reti di relazioni, il resto della società. Un mondo che si impone, in questo senso, come una realtà ibrida e di dimensioni pari all’intero globo (almeno potenzialmente!). Un nuovo spazio, permeato (e, in parte, costruito) da una combinazione straordinaria ed inedita di mass media, new media, comunicazioni ed informazioni di diversa natura che si incrociano e sviluppano forme ibride sia a livello tecnico (nuovi devices, Iphone, Web tv) che di contenuto (prodotti mediali concepiti e realizzati per dispostivi mobili, narrazioni prodotte dall’accumulazione di conversazioni nei social networks). Dentro tale concetto-ombrello ritroviamo, inoltre, quello (il secondo) di civic media. Ovvero, nel contesto della caduta di differenze di valore e reali tra ambienti già comunicativamente strutturati, emerge una stretta relazione tra questi scenari informazionali, un’evidente sovraesposizione dei soggetti a tali dinamiche e la possibilità che tale esposizione (e/o “partecipazione diffusa”) possa influire sulle forme dell’agire politico e della partecipazione alla vita sociale (on line ed off line). D’altra parte, se si prendono in considerazione le caratteristiche che, di solito, contraddistinguono un movimento sociale (policentricità, reticolarità, segmentazione e naturale distribuzione delle competenze) e le sia associa a quelle di cui sono dotate le piattaforme d’interazione di ultima generazione (interattività, alto grado di immersione, condivisione, collaborazione) emerge un vero e proprio “accoppiamento strutturale” tra questi elementi. Un accoppiamento che riassume in sé tutto il potenziale evolutivo e le possibilità di rielaborazione delle relazioni sia dei social networks (intesi come ambiente in cui riscrivere le regole della comunicazione), sia per quanto riguarda forme di agire comunitario come i social movements che decidono di affidare quote crescenti del proprio destino evolutivo alla Rete (invertendo il processo tradizionale “from off line to on line”). D’altra parte, è necessario ribadire che tale accoppiamento si rivela strategicamente rilevante, in particolare, da due punti di vista. Il primo è quello relativo all’implementazione di dinamiche architetturali connesse alla costruzione di un movimento in Rete (si pensi a come un social networks, attraverso un toolkit variegato, sia in grado di garantire una equidistribuzione di competenze, funzioni, azioni. Magari alimentandone di nuove grazie alle proprie caratteristiche tecniche). Da questo punto di vista, gli SnS si impongono come il collante per la creazione ed il consolidamento di un organigramma reticolare. Organigramma che rinvigorisce, d’altra parte, anche attraverso la produzione e la diffusione della linfa necessaria alla creazione di coscienze critiche e/o motivazioni all’azione: le informazioni. Per dirla in parole povere, i social network forniscono fondamenta, mattoni e calce per la costituzione di movimenti sociali in Rete. Quest’ultimo punto (relativo alla circolazione di informazione) trova conferma proprio nella ricostruzione degli studi attorno ai movimenti sociali cui si è fatto riferimento in precedenza. Molta parte della storia evolutiva dei primi movimenti legati al web ha messo in evidenza come questi ultimi ammantassero di significato politico anche l’uso di specifici mezzi tecnici per il confezionamento e la diffusione di informazione. Per cui, ad esempio, nell’ambito di una dialettica tra istituzioni ed i cosiddetti “movimenti antagonisti”, i primi erano naturalmente connessi ad i media di massa (stampa, tv, radio) e sviluppavano un correlato tipo di comunicazione; mentre, dall’altra parte della barricata vi erano i movimenti che utilizzavano le frequenza libere per la trasmissione di informazione via radio e/o tv ed, allo stesso tempo, adottavano le prime applicazioni web (mailing list soprattutto) per produrre informazione alternativa a quella del sistema, inteso nell’accezione francofortese del termine. Tuttavia, se si riflette sul modo in cui si è originariamente sviluppata la Rete (tradizionalmente connessa alle prime attività di hacking degli utenti meglio alfabetizzati all’uso della tecnologia), questa descrizione sembra un vero e proprio back to the roots che, ancora una volta, impedisce di superare i limiti contenuti in questa semplificazione teoretica per cogliere le autentiche potenzialità di ciò che sarebbe tanto riduttivo quanto controproducente definire con l’espressione “mezzo di comunicazione”. Si cercherà, alla luce di quanto sottolineato, innanzitutto di abbandonare ogni tentazione alla speculazione teoretica con finalità semplificatorie (i “buoni” abitano la Rete, i “cattivi” sono le corporations della comunicazione che controllano i mercati globali e/o viceversa), ogni esaltazione “technologically-orented”, così, come ogni pregiudizio nei confronti di ciò che ha luogo in questi spazi straordinariamente dotati di potenzialità rivoluzionarie in termini sociali, comunicativi, relazionali e narrativi. Ed, allo stesso tempo, si proverà a dare risposta ad almeno tre macro-quesiti relativi ad un oggetto di ricerca tanto complesso ed attuale quanto affascinante:
1) Come nasce, si articola e sviluppa un movimento legato a temi sociali che decide di affidarsi alla rete, con particolare riferimento ai social networks come motori di nuove dimensioni organizzativo/aggregative?;
2) In che modo, queste dimensioni neocomunitarie declinano concetti tradizionali come agire politico e partecipazione politica (ad esempio, osservando la pratica di costituzione/cooptazione di soggetti/prosumers, così, come la struttura funzionale alla trasmissione d’informazione ed alla ripartizione di priorità e responsabilità)?;
3) Come si oggettiva, alla luce delle suddette innovazioni tecno-sociali, il rapporto intersistemico tra “soggettività connesse”, istituzioni partitiche e media “main stream” (entrambi interlocutori naturali dei movimenti sociali in rete. I primi per ciò che riguarda le dinamiche tradizionali del coinvolgimento politico; i secondi per le modalità di costruzione dell’informazione attraverso il setting e la sincronizzazione di agende e temi)?;
4) Premesso che nell’analisi di oggetti complessi come i testi prodotti/fruiti in rete la triangolazione1 sembra risultare, ad oggi, la soluzione metodologicamente più sensata. Ci si chiede, in relazione all’oggetto della presente osservazione scientifica (incarnato in un caso di studi ancora da individuare), quale sia l’opzione metodologica più efficace nell’elaborazione di simili dati, così, come nella restituzione di risultati validi, efficaci e rappresentativi dal punto di vista statistico-matematico?

Io, Lorenzo, Verena e Margherita Hack

So perfettamente che farò spesso riferimento alla serie televisiva “Boris”, ma, ieri sera ho assistito ad una riproposizione assolutamente fedele di questa serie tv che, in realtà, è una specie di parodia della società italiana. Dei suoi vizzi, dei costumi e dei malcostumi, delle storture della politica come di quelle del mercato (specie dei mezzi di comunicazione commerciali!). Insomma, ieri mi sono ritrovato assieme a due miei amici a Misano Adriatico alla presentazione dell’ultimo saggio di Margherita Hack (“Libera scienza in libero Stato” credo..). Già mi immaginavo la solita solfa auto-celebrativa ed auto-referenziale tipica delle cose organizzate da amministrazioni comunali di sinistra per un pubblico-elettorato di sinistra (e sempre in cerca di conferme e rassicurazioni!). Vabbè, ad ogni modo il tema sembrava interessante ed ho voluto provare ad andare. E la scena che mi si è parata subito davanti agli occhi era delle peggiori. A cominciare dal pubblico. Tutti anziani, età media attorno ai 65-70. Ma è possibile che quando si parla di scuola, ricerca, investimenti in innovazione e sviluppo del nostro paese il pubblico più annoiato e disinteressato sia propri quello dei giovani?..Quello con meno prospettive, meno soldi, meno educazione, meno futuro di tutti. Un paradosso che, forse, si spiega col fatto che il livello medio di interesse dei giovani verso cose del genere sta toccando i minimi storici. Siamo la generazione più nella merda di chiunque altra, ma, siamo anche i meno disposti a rinunciare a qualcosa, a lottare affinché le cose cambino, buffo no?
Andiamo avanti. Ad un certo punto, in perfetto orario, si presenta una dolcissima Margherita Hack. Una donna che non esita a dimostrare tutta la sua gratitudine verso un pubblico nutrito e la sua enorme dolcezza. Immagine immediatamente rovinata dall’assessore-bibliotecario (finto) intellettuale di sinistra vecchio stampo che, con fare altezzoso, tira immediatamente un mega-pippone in cui, tentando di tessere le lodi dell’anziana signora, non faceva altro che guardarsi allo specchio sapientemente costruito con le parole (finto) ricercate con cui ha avviato l’incontro. Ho pensato subito “ecco il solito spocchioso di sinistra, riconosciuto come un autorità culturale (e magari politica) nella sua realtà, ma, che al di fuori di essa, non vale un beneamato cazzo!”…Introduzione brillante, pippone apprezzatissimo, domanda (finto) spiazzante e certamente strappa applausi da parte di un pubblico intorpidito un po’ dall’anagrafe, un po’ dalla caloria di un teatro comodo per le formiche (non per più di cento persone!), un po’ dalle parole dello stimato (o, forse, semplicemente assecondato!) intellettuale di turno… Ad ogni modo, la donna, femminista convinta, laica protagonista di tante battaglie politiche e civili, inizia l’illustrazione delle parti di cui consta il suo testo. Il tutto si consuma, con scelta sapiente che si rivelerà ingenua, in poco tempo per permettere al pubblico di intervenire con domande e spunti di riflessione. L’avesse mai fatto. Inizia la fiera delle banalità in cui, purtroppo, la comunità mette in mostra tutte le proprie bestialità insensate e grottesche. Parte il pecoraio del villaggio che, ammettendo la sua ignoranza, si lancia in domande e riflessioni su Buddha e Confucio nel tentativo di mettere in difficoltà la povera donna. Ma tutto rientra subito con un galante (e sudaticcio) bacia mano da parte del montanaro (un montanaro in un posto di mare è grottesco per natura!). Subentra all’omaccione delle montagne il bambino appena uscito da una pubblicità della Benetton che, letteralmente spinto dalla mamma e dal papà (bastardi psicopatici in cerca di stima e riconoscimento sociale da parte della comunità lì riunita), afferra il microfono e chiede: “Senta signora, ma, quando cadrà la prossima stella cadente?”…Applausi scroscianti, occhiatine d’intesa alla famiglia del bambino che, orgogliosissima per l’accaduto ed interessata al tema del dibattito, abbandona immediatamente la sala senza nemmeno aver ascoltato la risposta accorta ma ironica della Hack. Il loro “lavoraccio” quotidiano l’avevano fatto. La loro dose di soddisfazione quotidiana l’avevano ricevuta. Come il pusher che, dopo lo scambio, si dilegua dentro una discoteca affollata e tu resti solo a guardarti le mani tra il rincoglionito e l’ingolosito. Tristezza che avanza nel teatro-cinema. Nemmeno una pera d’eroina c’avrebbe tirato su. Parte, dunque, raffica di domande idiote e piuttosto fuori-tema. Credendo di avere davanti la versione seria ed affidabile di Sandro Giacobbo (quello di Voyager, un giornalista!), si abbandona tutti a domande che, piuttosto, sono curiosità personali, luoghi comuni in cerca di conferme. Buchi neri, universi paralleli, forme di vita non umane, eclissi, stagioni…tutte le più classiche minchiate che ti fanno studiare quando fai geografia astronomica al liceo. Ad ogni modo, niente che una buona ricerca su Wikipedia non sarebbe stata capace di soddisfare!!. E la politica? Le leggi-bavaglio? I tagli alla ricerca e alle assunzioni in scuola e università?...Non si sarebbe dovuto parlare di tutto questo? Invece, la povera donna (ripeto), seppure in gamba, era da sola e in balia di questa comunità di mentecatti fuori posto. Non spalleggiata da conferenzieri solidi e preparati, è stata letteralmente mandata in pasto al pubblico assetato di curiosità da pubblico televisivo del sabato sera. Niente di più, niente di meno. Un’occasione sprecata per parlare di cose che avrebbero interessato i giovani. Cose che, a vedere la composizione di quel pubblico ed il morale espresso dalle domande, comunque i giovani non avrebbero ascoltato perché non c’erano. Saranno stati fuori ?, a godersi la frescura serale tra negozietti e gelaterie di cui il luogo era pieno zeppo!!. Se c’è ancora qualcuno che non crede nella piena penetrazione sociale della “locura” (cit. da “Boris 3”) è pregato di ravvedersi in tempi brevi. Se non lo farà, ne sarà preda senza nemmeno accorgersene; quasi quanto lo sono io di Boris!!!....

Sfogo attorno all'accademia.....da oggi sento di poterlo fare un pò più spesso del solito!!!

No, perchè l'idea che uno debba lavorare tre anni dietro un oggetto della cui credibilità è poco convinto, di riflesso, porta la tua credibilità ai minimi storici. E' quello che mi sono detto nel momento in cui ho deciso di cambiare il mio progetto di ricerca. Ho riflettuto sulla spendibilità di ciò che si realizza (in un mondo McDonaldizzato siamo tutti un pò commercianti di noi stessi!), in termini scientifici ovviamente. Ho cercato di pensare alla passione, allo studio estenuante, alla realizzazione di qualcosa di importante (per me, sopra ogni cosa!). E difficilmente ci si sarebbe potuti permettere di lavorare per altri, di cercare la sintesi, il compromesso. Di quel genere di compromessi, poi, che ti ammazzano la voglia di fare. Che tranciano di netto le tue potenzialità. Io non so se possiedo una competenza (figuriamoci un talento!) per la ricerca. Non so, onestamente, se sono adatto a condurre lavori strutturati, coerenti e complessi. Non lo so. Ma so per certo che, finchè potrò, cercherò di dare senso alla mia esperienza di dottorato facendo quello che mi piace. In fondo, è proprio seguendo questa chimera che ho tanto lavorato per rendere possibile tutto questo. Se, una volta createsi le condizioni, avessi deciso di rinunciare ai miei interessi (mettendo da parte me stesso proprio nel momento in cui avrei dovuto esserlo di più!), mi sarei comportato in modo schizofrenico, contraddittorio. In una parola: stupido. E me ne sarei pentito per tutto il resto di questa esperienza. Forse, d'altra parte, me ne pentirò lo stesso. Fanculo l'università dei baroni, delle adesioni incondizionate. Delle lottizzazione che disegnano geometrie e ripartizioni che avvolgono tutto e tutti indistintamente. Uomini, cervelli, competenze, vite, risorse, oggetti, spazi. Fanculo l'università che non vuole crescere ma combatte solo per il mantenimento dello status quo che fa bene a loro e solo a loro. Vaffanculo l'università dei capi e dei capetti che fanno pagare il prezzo della loro frustrazione a delle persone innocenti e che hanno scelto l'università perchè credevano di poter dare qualcosa di nuovo, originale ed importante alla comunità, non solo scientifica. Fanculo le pressioni psicologiche che ti schiacciano e ti fanno sentire, comunque vada, colpevole. Di essere stato troppo duro o troppo poco duro. Troppo furbo o troppo poco abile nelle pubbliche relazioni. Troppo politico o troppo poco diplomatico. Vada a farsi fottere quell'accademia che ti stressa con le sue discussioni politiche, i suoi compromessi ed i suoi costanti baratti distogliendoti da quello che dovresti fare davvero: Ricerca. Vada a farsi fottere l'università dei pipponi, delle cose scritte e non firmate, delle soddisfazioni castrate. Delle cazzate ammantate di scientificità. Dei leitmotiv dei professori, che con quelli sono nati e con quelli moriranno. Nemmeno un cantante che si sia reso noto per un solo pezzo in tutta la sua carriera riesce a campare così a lungo e con i confort con cui riesce a farlo un qualunque ordinario. Vedi i benefici dell'affidarsi ad un sistema liberista e commerciale spinto???!!!!....Non si sa mai...E, in fine, vaffanculo a tutti quelli che non lavorano seriamente per creare un futuro, dell'accademia e dei giovani che vi lavorano. I burocrati, i tecnocrati, i giuristi, i governanti che se ne sbattono di creare ricambio, continuità, qualità e preferiscono far parlare statistiche e numeri che non dicono niente e dietro cui si cela tutto e di più. Gli orrori e le mancanze più gravi!!!!. Vaffanculo gli egoisti e gli ipocriti. Vaffanculo una università che li racchiude e continua a cooptare gente della sua stessa specie. Così non si cresce affatto, anzi, ci si avvicina alla morte. Cerebrale e organica!!!!......

Butto lì una idea per un progetto di ricerca sensato.....

Dinamiche di costituzione ed (auto)rappresentazione dei movimenti sociali
e siti di Social Network


Ratio ed obiettivi

Con il presente progetto di ricerca ci si propone d’indagare, da una prospettiva coerente con i principali approcci della sociologia della comunicazione legati sia alla communication research che allo studio delle dinamiche della produzione culturale nei media, i processi alla base della nascita, evoluzione ed espansione, nell’ambito delle più recenti tecnologie di social networking, dei movimenti sociali meglio noti con l’acronimo di S.M.Os (Social Movement Organizations). In particolare è ipotizzabile pensare gli SMOs come luogo privilegiato di osservazione delle dinamiche di strutturazione del micro-macro link nella nostra società complessa.
In modo particolare s’intende osservare il fenomeno innanzitutto da una prospettiva macrosistemica, ovvero, incentrata sull’osservazione dei meccanismi di oggettivazione delle proprietà che buona parte degli studi di riferimento (Della Porta 2001-2002, Antenore 2005) attribuiscono ad un movimento sociale legato alla Rete e, in particolar modo, all’adozione di strumenti in ambienti ad alto tasso d’interazione come i social network. Esse sono:
• segmentazione (articolazione interna del movimento, regolata dall’uso di specifiche variabili),
• policentrismo (il riscontro della presenza di una dimensione verticale o, piuttosto, orizzontale nella gestione delle priorità, dell’agenda settino dei temi di riferimento, nell’attribuzione di specifici ruoli, responsabilità e relative competenze),
• reticolarità (o livello di ramificazione del movimento. Esso può essere considerato come il livello di penetrazione/seguito ottenuto all’interno di uno specifico segmento della società e/o di una realtà geografica particolarmente connessi con le ragioni ed il modus operandi del movimento in questione).
• natura dei legami interpersonali che si realizzano all’interno di un determinato movimento sociale.

Molta della letteratura di riferimento, ancora profondamente influenzata dall’enorme successo sociale di stampa e tv (vedi Della Porta 2001, Ceri 2002, Pianta 2002 o Bentivegna 2002) ed, in parallelo, ancora non del tutto conscia delle enormi potenzialità connesse all’uso ed al rapidissimo successo globale di Social Networking Sites ed applicazioni Web 2.0, attribuisce alla Rete la possibilità di strutturare legami unicamente deboli o, in qualche modo, complementari rispetto alle tradizionali dinamiche dell’interazione faccia-a-faccia. Per molti di essi, dunque, la costruzione di movimenti sociali in Rete è, molto spesso, solo il coronamento di un meccanismo di costruzione dell’adesione che ritrova ancora le sue radici nella Realtà, off line. Per altri (Antenore 2005) il successo di numerosi movimenti legati alla Rete è dovuto:
a. all’enorme tasso di adesione realizzato: si veda il movimento No Global di Seattle nel 1999 o il “popolo di Genova” riunitosi in occasione del G8 per realizzare un contro-summit con finalità contestatore. In entrambi i casi non fu, ad ogni modo, la Rete ad essere l’artefice del successo, ma, l’attività di numerose ONG da tempo attive nella contestazione degli effetti deleteri della globalizzazione e della finanziarizzazione dei mercati;
b. oppure alla concretazione del cosiddetto effetto spillover verso i media main stream. Ovvero, nella capacità di riuscire ad implementare a tal punto un tema in agenda (come, ad esempio, la contestazione delle grandi potenze economiche della Terra) da farlo entrare prepotentemente tra i principali temi “notiziabili” da parte del sistema dei media tradizionali. A tal punto da riuscire ad ottenere una visibilità ed un livello di diffusione in grado sia di accrescere la credibilità/attendibilità del movimento; sia, d’altra parte, il numero dei potenziali attivisti.

Rispetto a tali presupposti, piuttosto pessimistici riguardo le potenzialità aggregative/relazionali della Rete, il presente progetto si propone, tra gli altri, l’obiettivo di analizzare specifici casi di studio nel tentativo di portare alla luce esempi di successo/insuccesso di movimenti sociali dotati delle medesime caratteristiche sopra elencate, ma, nati integralmente in Rete e, solo successivamente, oggettivatisi in forme di mobilitazione off line. Da una parte, dunque, saranno tenute ben presenti ed analizzate a fondo le caratteristiche tradizionalmente attribuibili alle applicazioni Web 2.0 (su tutte: la funzione informativa, la strutturazione naturalmente ramificata, le dinamiche di sharing/creating contents e l’abbattimento sensibile di tempi/costi). Dall’altra, al contempo, si cercherà di mettere in luce, mediante un approccio fenomenologico a casi specifici, quanto e come la Rete sia anche in grado di alimentare una mobilitazione diffusa ed un’autentica partecipazione civile (in inglese “civic engagement”) sia on line che off line.

In modo particolare, le domande di ricerca a partire dalle quali si articolerà il progetto sono le seguenti:
- Com’è possibile la nascita di un movimento sociale nell’ambito di uno o più social network?;
- Quali sono le scelte di ordine strategico/logistico alla base della selezione di una o più piattaforme neomediali cui affidare la propria missione pedagogica e informativa ?;
- In che modo germoglia e s’implementa l’organigramma di un movimento sociale?;
- Quali sono i criteri in base ai quali (sociali, di classe, d’appartenenza al territorio, riferibili ai contenuti) si sviluppano i nodi intesi come unità minime costituenti un movimento “a rete” ?;
- Quali sono le dinamiche (interne, esterne o ibride) attraverso cui si delinea l’agenda di riferimento e, dunque, si materializza il relativo processo di newsmaking ?;
- Cosa s’intende, in questo nuovo scenario, per partecipazione politica e quali sono i modi tramite cui si oggettiva ?;
- Quali sono i criteri in base ai quali vengono stabilite specifiche priorità operative, definite e ripartite competenze e responsabilità ?;
- Che livello di coordinamento esiste tra il modus operandi di determinati nodi costituenti “la base” del movimento e la/le strutture centrali di raccordo (se esiste)? Come si oggettiva?;
- Che tipo di relazione esiste tra le forme di auto-coscienza del movimento e quelle di etero-rappresentazione provenienti dai media “main stream” intesi come realtà sistemica?
- Quale linea evolutiva caratterizza le varie fasi dell’esistenza di un social movement (orientamento all’azione/adesione o, al contrario, all’auto-celebrazione/organizzazione in altri)?
- Che tipo di relazione esiste tra la dimensione e la semantica grassroots del movimento ed il sistema delle istituzioni partitiche ritenuto, da sempre, il naturale interlocutore dei movimenti sociali, più spesso noti come “movimenti antagonisti” ?.




Metodologia

La mole di dati presenti in Rete ed, in buona parte, etichettato ed organizzato secondo specifiche variabili nell’ambito dei social network (Facebook, Twitter piuttosto che Flickr) se, da una parte, configura tali applicazioni come veri e propri “aggregatori naturali” di soggetti e relativi prodotti; da un punto di vista tecno-scientifico, impone l’impiego sinergico di strumenti d’analisi qualitativi e quantitativi. Nonostante siano evidenti problemi e rischi che porta con sé ogni indagine che voglia utilizzare dati di questo genere (legati, ad esempio, alla selezione di un campione a partire da una popolazione precedentemente delineata o, piuttosto, alle difficoltà che si potrebbero incontrare nella semplice traduzione in termini statistico-rappresentativi di dati ottenuti dall’osservazione di profili e specifici comportamenti on line) d’altra parte, l’individuazione di un determinato caso di studi, connesso alla possibilità di sfruttare un bacino dati ancora poco inutilizzato a scopo d’analisi scientifica, consentirebbe di circoscrivere il raggio d’azione e di implementare una metodologia di ricerca sensata ed in grado di produrre risultati comunque attendibili. Concentrando, anzitutto, l’attenzione su di un canale specifico come, ad esempio, l’adozione e la tipologia d’uso di Facebook da parte degli aderenti ad un determinato movimento sociale, sarebbe possibile sfruttare i profili (personali e/o di gruppo) per condurre sia indagini di stampo quantitativo (analisi del contenuto mono e multifattoriale, tecniche di network analysis) sulla base di specifiche variabili strutturali (e coerenti rispetto ad una popolazione omogenea e ben definita a partire dalla concentrazione su di un determinato caso di studi), che analisi delle conversazioni (si pensi alla grande quantità di discussioni alimentate/condivise all’interno delle pagine di cui si compone un social network come Facebook) e del materiale audio-visuale (foto, immagini, video) individuabile/archiviabile in fase di osservazione. A completamento dell’analisi qualitativa, che s’impone come maggiormente dotata di senso rispetto all’analisi di dati così complessi e spesso difficilmente indicizzabili secondo necessità rappresentative, potrebbe risultare di un qualche interesse scientifico anche la conduzione di interviste faccia-a-faccia, focus group ed interviste biografiche con soggetti individuabili nel corso dell’analisi del singolo caso. Soggetti che, individuabili attraverso profili personali strutturati in rete, potrebbe essere selezionati in modo tale sia da completare la ricostruzione della tipologia di utenti “medi” legati ad una specifica esperienza di cyber-attivismo, che la possibilità di aggiungere elementi preziosi all’analisi quantitativa condotta sul materiale naturalmente presente in rete.

Il cattivo tempo alimenta riflessioni cattive (che non mordono niente e nessuno se non la mia coscienza!)....

Lo schifo della televisione italiana non ha più nessun confine. Il ritegno ed il contegno che, un tempo, spingeva anche i più laidi e luridi direttori di rete (e di partito) a ricercare i favori del pubblico anche attraverso una programmazione di qualità, con informazione vera, fatta da giornalisti veri oggi non esiste davvero più. La mancanza di inibizioni ad esibire schifo e questioni da salotto è la più lampante manifestazione di una assoluta mancanza di rispetto del pubblico medio del nostro paese. Non esistono quelle distanze (tra produttori e fruitori) che, forse, un tempo alimentavano una certa professionalizzazione del settore e, allo stesso tempo, garantivano informazione e programmi di autentica originalità e capaci di intercettare i gusti dei consumatori. Oggi, l’avvicinamento progressivo, il profilo da (finti) crooner assunto dai mezzo-busti dei nostri telegiornali nazionali ha reso tutto più vicino, confidenziale e scadente. Col mito per cui tutti possono tutto, la chimera delle infinite possibilità di realizzazione ha distrutto l’autenticità di un mezzo così come di quelli che vi si trovavano e trovano dentro. Ma siamo così sicuri che una democratizzazione senza confini equivalga ad una vera e generalizzata conquista di diritti? Secondo me stiamo condendo un po’ tutto con tutto. E la televisione, in questo sforzo chiarificatore, certamente ci è di intralcio più che d’aiuto. Nell’epoca della multiculturalità questa viene tematizzata (sempre dalla tv) come una trasversalità a tutti i costi, garantita e tutelata dalla legge. Ma perché? e, soprattutto, per il bene di chi? Se parla una parte, deve farlo anche l’altra. Si prendono temi storici di grande valore e li si mescola con storie personali per creare parallelismi originali. Così originali da fuorviare totalmente quel barlume di conoscenza che ancora si spera di ricavare dalla fruizione di un qualche programmino televisivo che, come un’oasi nel deserto, ancora resiste alle tempeste banalizzanti della televisione dei diritti e delle garanzie costituzionali ( che, mettendoli in forma di oggetto di dibattito sa salottino, ne smentisce e ridimensiona il valore degli uni e delle altre!). Sono piuttosto stanco di dichiararmi di una sinistra liberale se, quest’assoluta apertura, ha distrutto ogni confine, anche il più giusto e sottile. Sono stanco di proclamarmi come dotato di una giusta dose di buon senso perché questo, troppo spesso, viene confuso con xenofobia, odio della diversità, auto-alienazione, incapacità di tollerare la diversità (di discorso, di colore, di sesso, di religione). Ma certo, è ovvio. In tutto questo casino, è praticamente impossibile (oltre che di nessun significato per l’economia del sistema) tener conto e tirare ancora dentro distinzioni sottili, dialettiche di spessore. Troppo complesso, troppo lungo. Allora, è il momento in cui la globalizzazione democratizzante a tutti i costi tira dentro il suo opposto paradossale: il manicheismo facile, da fast food. Se sei di sinistra allora sei favorevole al matrimonio tra coppie omosessuali, sei per la pillola abortiva, sei vicino alle più sfegatate femministe, sei laico (al massimo, lievemente credente!), sei amico almeno di una lesbica e di uno di colore che ti lava i vetri al semaforo sotto casa. Sei favorevole alla migrazione indiscriminata. TI proclami vicino ai centri sociali e le manifestazioni violente ti piacciono, anche se non lo ammetteresti mai pubblicamente (mica sei un no-global?). Allora, tra nuovi snobismi e false indiscriminazioni diventi in poco tempo un perfetto soggetto da salotto televisivo, con tanto di bagaglio di frasi ad effetto per sorprendere gli amici in discussioni casalinghe o, al massimo, per dimostrare a tuoi un minimo di maturità intellettuale. Se sei di destra, ovviamente, è tutta un’altra storia. Poi, dopo tutto sto pippone, non riesco comunque a dimenticare l’accostamento mirabile, operato da Vespa a proposito delle leggi sull’immigrazione, tra Cota (che da cravatta verde acido è passato ad una verde culo di bottiglia quasi si vergognasse di appartenere ad una classe dirigenti fatta di ciucci parlamentari e porci governativi con tanto di ali!), Gasparri (sempre più macchietta di sé stesso) ed il critico d’arte Achille Bonito Oliva. Ma mi dite cosa cazzo c’entra un seppur rispettabile critico d’arte con dei politici e dei giornalisti riuniti per discutere di un tema tanto importante come l’immigrazione e la regolamentazione dei clandestini presenti nel nostro paese??? Vi prego, datemi una risposta di buon senso. La risposta, ad oggi, me l’ha data lo stesso Bonito Oliva che, intervenendo in proposito, dichiara che artisti, pittori e critici sono da sempre, naturalmente multiculturali. Perché? perché pittori e critici si spostano da un posto all’altro senza alcun problema, da una capitale europea all’altra. Sono aperti mentalmente, pronti alla contaminazione culturale e, in questo senso, sono precursori di un movimento che dovrebbe caratterizzare intere popolazioni. Non solo quella italiana. Ma che razza di snob è questo? DI cosa diavolo sta parlando? (ancora) che cosa c’entra? L’ho capito, ma, non voglio ammetterlo a me stesso. Le conseguenze che dovrei sopportare metterebbero a dura prova il mio cervello che, già ogni giorno, deve lavorare tanto solo per filtrare la merda presente in praticamente tutto quello che vede attorno a sé. Dentro, fuori, attorno e sopra l’università. Ma questa è un’altra storia. Forse.

Santoro e qualche riflessione spacciata per originale....

Stasera guardo Santoro in compagnia di amici e mi rifilano un mega-puntatone omnibus. Parte con lo sfogo personale di Michele, la mega-parentesi tra lo sconcertato, l'atterrito e la denuncia sociale sui preti pedofili in Italia ma anche negli Stati Uniti per, poi, concludersi con le solite vignette anti-governative di Vauro in diretta da casa sua (forse malato...).
Insomma, sarà perchè le chiacchiere mi confondevano, ma ho fatto fatica a ritrovare il bandolo della matassa di questa trasmissione. Un miscuglio di elementi, un tentativo (vano) di alimentare emozioni differenti e forme alternative di indignazione. il tutto condito da battutine, mezze ironie. Ma, d'altra parte è così, è lo show di Santoro. Non ricordo dove l'ho letto, ma, a volte, ricostruire il significato di parole (anche banali) può aiutare a capire come funzionano (ancora e di più) certe cose. "Show" non significa niente di più che "mostrare, rappresentare". E, di fatto, Santoro non faceva altro che mettere in mostra la propria potenza, la propria capacità di investire, di sviluppare ragionamenti complessi e, assieme a lui, si è assistito al solito spettacolo del giovedì sera in cui l'Azienda (la Rai) mette in mostra tutta la potenza dei propri investimenti. Tutti i migliori risultati dell'investimento dei soldi dei suoi abbonati. Ogni trasmissione, ogni galà, ogni manifestazione trasmessa in diretta, in fin dei conti, non è nient'altro che l'ennesima dimostrazione di forza di un'azienda che trasforma, come re Mida, i soldi in "oro (finto)culturale". Programmi di rilievo, docu-drama. fiction (ri)evocative dei principali avvenimenti storici del nostro paese. La tv pubblica è l'abominio della società. E, nello stesso tempo, il tentativo più riuscito di ricostruirla, comprenderla, mangiarla e, allo stesso tempo, superarla. Superare la realtà ricostruendola sulla base del miglior cast a disposizione (sempre gli stessi) e delle possibilità di investimento in trame e narrazioni politically correct. Così, stasera si è (ri)creata (per coloro che l'hanno appresa per la prima volta, si è appresa..) la narrazione della pedofilia all'interno di una parte del clero cristiano. E, cosa piuttosto raffinata, la narrazione è stata presentata con tutto il suo cast di attori (preti anziani, condannabili solo per l'aspetto da potenziali stupratori di bambini con cui vengono presentati!), giudici, colpevoli e vittime. E non ci si è fermati un solo secondo a chiedersi delle cause di quei gesti, analizzando la società (o quello stessso sistema ecclesiastico) che li ha effettivamente prodotti. Tutta questa ansia da prestazione, questa voglia di dimostrare a tutti i costi di avere in possesso l'ultima notizia-bomba prodotta dalla realtà (piuttosto strumentale come accezione della realtà. Della serie "l'ambiente, ciò che è fuori esiste solo in quanto posso cooptarne gli elementi che, di volta in volta, servono o sono ben disposti ad essere formalizzati in notizia, evento, fatto straordinario"): E, così, è accaduto nei confronti dei preti pedofili. Con tutto questo pippone non penso affatto che queste persone (vere e proprie bestie, in alcuni casi) siano esenti da giudizio ne, tanto meno, da condanne. Dico solo che, per capire meglio e davvero le cose che succedono attorno a noi (ai figli e ai figli dei nostri figli...) bisognerebbe, ogni tanto, dare la priorità al tempo. Quello della comprensione. Entrambi (tempo e comprensione) gli elementi, tuttavia, cozzano con necessità produttive (produzione di notizie per il consumo di massa), tempi e modi di presentazione della realtà. L'ingiustizia più grande, ad ogni modo, è perpetrata nei nostri confronti da un sistema che, sapendo di pesare sempre di più nella conoscenza del mondo che ci circonda, crede di poter supplire alla nostra capacità di organizzare/rappresentare questa realtà e, sulla base di un assunto non condiviso nè concordato ma perpetrato come abuso e pura ingiustizia, ci presenta un mondo intero confezionato in pillole, brevi, flash. Il mondo dei media assume questa presunzione come premessa per il proprio agire. Il sotto-sistema deputato alla produzione e distribuzione in serie di informazioni (dai giornalisti ai giornalai, ammesso che sopravviva un serio discrimine strutturato su priorità deontologiche e necessità etiche...) è davvero il culmine e la paradigmatica rappresentazione di questo colossale teatrino che non smette di stordirci. E noi lì, fissi, come monadi senza spina dorsale. Se penso a quanto siamo tagliati fuori dal "Mondo" che presumiamo di conoscere così tanto bene, avverto nelle mie ossa tutto il malessere di vivere una vita sintetica (così liscia da scivolarci serenamente sopra io stesso, tutti i giorni....) e, di fatto, non così tanto diversa da molte altre vive che, nel frattempo, vivono accanto alla mia così tanto serenamente da non lasciarmi più nessuna speranza di redenzione. A proposito di fede. Un'altro limpido sistema che sulla promessa di semplificare (semplificarci) la realtà non ha fatto altro che allontanarci da essa, riproducendone una ad hoc. Tutta nuova di zecca come una auto nuova di zecca. E, in effetti, a livello di necessità quotidiane, passa una leggerissima differenza. L'auto soddisfa i nostri bisogni, riflette i nostri istinti, colma le nostre più accese e recondite passioni. E' un oggetto mitico, carico (e caricato) di una storia e di un significato archetipale (basta guardare una qualsiasi delle pubblicità di auto, specie quelle di lusso!!). La religione, nella sua strutturazione (così come nella sua più recente apertura alla comunicazione, al marketing e la cura maniacale della propria immagine su cui, ad ogni modo, specula da quel dì!!), rappresenta la più antica e collaudata macchina pubblicitaria del secolo. Vendere idee, indulgenze e redenzione al prezzo di un'atto di conversione è quanto di più economico e soddisfacente sia esistito per interi secoli. Come il soggetto che, intervistato all'uscita del cinema (vedi Adorno che, in questi giorni, mi sta cambiando le percezioni e la vita!), invece di parlare del film esprimendo un giudizio in merito al contenuto, esclama "per due cents, questo sistema di permette di vedere un colossal costato milioni di dollari!!!!". Così, la religione per un piccolo voto (che investe in pieno la tua anima!), ti dona e rende parte di una Storia di miracoli e di un al di là ancor più magnifico. Cosa c'è, allo stato attuale, di più conveniente??. Ed è proprio questo il punto. Oggi ragioniamo quasi solo in termini di "convenienza del noi". L'abominio estremo della pura soggettività pensante. Da quanto Bacone, Cartesio e Kant (su tutti!!) ci hanno messo in testa la convinzione che spettasse ad ognuno di noi la possibilità, il potere di organizzare ed agire sul mondo che ci circonda. Lì è iniziata la vera rivoluzione dell'uomo. Lì ha avuto inizio quella condizione di propensione permanente ad un'illuminismo perfettibile che ha nutrito di tante false convinzioni, mistificazioni di massa e genocidi culturali la nostra umanità, contaminandone la natura essenziale. L'inizio della fine dell'essere. L'esaltazione più compiuta e raffinata dell'apparire (a tutti i costi). "Costi quel che costi". Compreso Santoro e tutto il suo rispettabile e terrificante carrozzone....

Mio fratello va a Torino.....

Proprio ieri ho fatto una chiacchierata con mio fratello Fabio mentre si trovava nel pieno della frenetica e ansiogena attività di auto-promozione degna di un giovane e rampante autore emergente quale lui è. Era a Torino. Fiera internazionale del libro. Migliaia di case editrici grandi, medie e piccole a caccia di sponsor, potenziali lettori e consumatori da catechizzare. Lotte fratricide per accaparrarsi lo stand più conveniente a livello strategico-logistico. E, dall'altra parte della barricata, centinaia di giovani e meno giovani. Affamati, indaffarati a lasciare centinaia di chili di biglietti da visita. Pochi minuti a disposizione e la pressante necessità di sembrare subito accattivanti, interessanti agli occhi di qualche editor, manager senza scrupoli del talento frustrato e declassato di questo mare di neonati venditori di emozioni. Ma chi lo ha detto che un giovane scrittore, che mi sono sempre immaginato immerso nelle benedette sudate carte o tormentato davanti allo schermo di un PC, debba anche possedere i requisiti tipici di un venditore?, il fascino, il carisma e la faccia tosta di imbonitore?. Tanto più se uno è bravo a scrivere, dove e quando è stato ritenuto essenziale anche sapersi vendere quel mercato di pesce-cane?. E, di fatti, posso solo immaginare il profondo imbarazzo che avrà provato mio fratello solo all'idea di incontrare professionisti tra le cui mani saranno passati centinaia di testi, centinaia di vite perse in una speranza, legate indissolubilmente ad un sogno mai divenuto realtà. Ebbene, è effettivamente dura presentarsi convinti di avere una idea originale, nuova ed in grado persino di attirare l'attenzione di questo genere di persone. Indaffarate, non meno dei primi, a procacciarsi affari, a celare dietro uno sguardo non meno fintamente convinto e sprezzante energia, la grande crisi che l'editoria sta attraversando. Una crisi inarrestabile e che, come una selezione naturale, lascerà sul campo non pochi cadaveri. I primi a morire, così come in natura, saranno i più piccoli, i più deboli. Quelli che si reggono su mercati di nicchia, collane sui viaggi, sulle arti marziali, fiabe per bambini, racconti fantasy per giovani mai maturati. E, tra tutte queste pubblicazioni, ci mettiamo pure quella di mio fratello. Tradito dalla sindrome della cartomante. E, nei panni della fattucchiera malefica, c'era la casa editrice che con aspettative di successo e fama ha nutrito il suo cuore, riempito di orgoglio la sua anima...Spero che questo post lo continui lui perchè, in fondo, è suo..Io penso solo che la nostra generazione è tanto priva di speranze, quasi, quanto della mancanza di coraggio per viverne.

La vita di Marta e l’illusione del lavoro per tutti….

Alla mia età è praticamente impossibile non imbattersi in storie di amici, parenti, conoscenti, ex colleghi dell’università. Personaggi più o meno in gamba, ma, pur sempre alla ricerca di un lavoro, di un’occupazione che soddisfi, allo stesso tempo, le esigenze e la voglia di realizzazione personale così, come le speranze nutrite (volente o nolente) dai genitori. Come si dice, “i genitori sono il polmone dell’economia in tempo di crisi”, ma, nessuno si sofferma a riflettere sul peso determinante che ancora molti di loro giocano nella gestione/pianificazione del futuro della propria prole. Un po’ come succede quando una grande multinazionale ne rileva una più piccola e con meno risorse finanziarie. La prima cosa che la dirigenza di quella multinazionale metterà in chiaro sarà che “chi porta i soldi ha l’ultima parola”. E, credo ancora troppo spesso, questo tipo di influenza (diretta e indiretta) si concretizzi all’interno di numerosi nuclei familiari. Certo, non lo sostengo dati alla mano (d’altronde, come è possibile misurare statisticamente il grado di influenza che i genitori esercitano sui propri figli. La statistica incontra un limite evidente nell’analizzare le dinamiche intrapsichiche. I moti dell’anima!). Insomma, parlare ed osservare così tante situazioni di insoddisfazione, più o meno permanenti, mi crea dispiacere e spavento. Vedo intelligenze sottovalutate e sottopagate. Vedo un sistema universitario che sforna centinaia di migliaia di neo-laureati senza preoccuparsi di gestirne l’avviamento consapevole nel mondo del lavoro. A questo proposito, sarebbe interessante sviluppare un filtro come avviene con i flussi migratori. Un meccanismo di gestione delle iscrizioni universitarie basato sul coordinamento con le necessità del mercato del lavoro (premettendo che il mercato del lavoro debba essere adeguatamente riformato perché, così com’è, non può essere capace di auto-regolarsi con criterio e raziocinio). Penso alla crisi di un sistema di istruzione professionale che, nel tempo, ha perso prestigio e figure formative di spessore. Questa forte spinta all’intellettualizzazione, alla necessità di un ricambio continuo della classe dirigente ha fatto completamente perdere di vista il lavoro manuale su cui si è retta la nostra economia per decenni, sin dalla sua nascita (si parla tanto della piccola/media impresa come di un vanto nazionale, ma, il lavoro artigianale a conduzione familiare si sta perdendo giorno dopo giorno anche a causa di un sistema scolastico discriminatorio per natura!). Penso ad un mercato del lavoro che pubblicizza a tamburo battente il lavoro flessibile, il lavoro per tutti. Ovviamente è tutta un’illusione, fuffa allo stato puro. Il lavoro flessibile certamente non è più l’impiego o la professione di un tempo, ma, non ha nemmeno più le sembianze di un vero lavoro. Contratti mensili, trisettimanali. Il lavoro a chiamata, apoteosi del non-lavoro che pretende di imporsi come lavoro comodo. Il tele-lavoro, da casa. Un’attività che per le sembianze che assume sembra qualcosa di molto più vicino ad un hobby che ad una professione capace di renderci indipendenti. Di sottrarci dal giogo dal viso sorridente e benevolo nei nostri genitori. Da cui (e non voglio sputare nel piatto dove mangio..), dovremmo liberarci, meglio prima che poi. Tutti. Per non parlare, poi, delle paghe che sento quando ci si confida tra amici. Pare che una condizione generalizzata, un tempo tipica del lavoro nero, stia diventando una situazione accettata, diffusa. Incoraggiata dagli imprenditori e spalleggiata dal governo attraverso riforme e leggi finanziarie che stanno quasi cancellando il capitolo di spesa relativo alla nostra formazione pre-lavorativa. Poi, ci vengono a dire che i giovani non sono abbastanza tenaci da affrontare un mercato le cui condizioni sono inevitabilmente mutate. Io, al contrario, penso solo che non abbiamo auto abbastanza forza da ribellarci quando, attraverso una serie di riforme, ci hanno prima tolto la formazione, poi, i diritti come futuri lavoratori. Mi dispiace certamente che le cose non siano andate come in Francia o in Olanda. E rifletto una volta di più sulla nostra cultura, sulla nostra incapacità di reazione che non è solo figlia di un mero problema caratteriale. E qualcosa di ben più profondo, parte della nostra stessa Storia. Purtroppo. Il quadro che mi si para davanti e, quindi, estremamente sconfortante. Molti dei miei coetanei si trascinano da un lavoro all’altro. Qualcuno alterna lavoro regolare e lavoro nero per arrotondare. Il più fortunato ha un contratto di apprendistato di tre anni, con tanto di contributi. Cioè, il più astuto ha una prospettiva lavorativa di almeno tre anni. Ma ci rendiamo conto di cosa sono diventate le “condizioni privilegiate”. Il nostro grado di soddisfazione si è fortemente ridimensionato. Le nostre aspettative diminuiscono giorno dopo giorno, contratto dopo contratto. Si arranca, ma, qualcuno non molla. Marta, una ragazza di Padova di cui ho sentito parlare qualche giorno fa, aveva studiato per diventare interprete. Ovviamente le necessità familiari ed un po’ di voglia di affermazione l’avevano spinta ad accettare con un certo entusiasmo un’occupazione all’interno di una azienda agricola. Lavoro rigorosamente in nero, zero contributi. Zero garanzie, tutela sul lavoro. Una paga di circa cinque ero netti/all’ora. Marta, in fin dei conti, aveva 21 anni con tutta la fame e la voglia di avere uno stipendio tutto suo. Esigenze che, è bene dirlo, la ponevano già al di sopra delle aspirazioni medie dei suoi coetanei. Certo, lei avrebbe potuto denunciare (classico discorso da sindacalista dalla pancia piena!). Ma, intanto, i soldi chi glieli avrebbe dati. In quale altro modo avrebbe potuto garantire alla sua famiglia di raggiungere la terza e non la seconda settimana del mese?. Denunciando?.. della serie “quando il buon senso lascia spazio al qualunquismo televisivo”. Insomma, lei accettò questo lavoro nonostante la lontana dalla sua ambizione di interprete, gli orari massacranti, l’assenza di garanzie anche minime. Fatto sta che pochi giorni fa Marta è morta. E’ stata ritrovata sul nastro che trasportava le uova che lei si occupava di confezionare. Le cause sono ancora tutte da chiarire. Ma, una morte del genere assume da subito i contorni di un martirio che si consuma. Non solo quello di Marta, ma, quello di un’intera generazione frustrata dall’assenza di lavoro. Sottovalutata da un sistema formativo per, poi, essere schiacciata dai rapporti di forza interni ad un mercato del lavoro saturo e cinico. Le uova che confezionava, giorno e notte, la povera Marta direi che ci rappresentano piuttosto bene. Guscio molle e sottile, ventre debole, liquido.

Elezioni regionali 2010. Prospettive divergenti: il narrare, lo (stra)fare, il (troppo)pensare....

Queste elezioni sono state davvero una dimostrazione di forza. Ovviamente, e ancora una volta, della destra. Vince la Lega che conserva e, in alcune regioni, accresce il risultato già ottimo ottenuto con le scorse politiche. Il partito, prima costola oggi architrave della destra nazionale. Lo schieramento che, in qualche modo, riempie di contenuti e risposte. Misure che, in molti casi, a livello locale e nazionale, hanno fatto e fanno discutere ma che evidentemente sembrano rispondere ai bisogni, ai desideri nascosti di molti italiani. Specie nel nord, ma in progessiva ascesa anche tra le regioni del centro. L’incontro-scontro tra il Pdl di Berlusconi e il partito (una volta movimento) del “senatur” è piuttosto interessante. Da una parte, il cavaliere riesce a fare due clamorose operazioni narrative:
1) Alimentare un’immagine pubblica di vittima delle ingiustizie degli altri. E nella categoria “altri” ci possiamo mettere un po’ tutti. Toghe rosse, Corte costituzionale, Presidente della Repubblica, giudici, ecc…
2) In relazione alla scadenza delle elezioni regionali, essere riuscito a far passare l’idea che tale scadenza equivalesse soprattutto ad una sorta di prova di “mid term” all’americana. Per cui, spostando l’attenzione su di sé anziché sui candidati scelti per le singole regioni, è stato capace di spingere al voto di conferma un po’ tutti i suoi. Compresi, in modo particolare, gli astenuti potenziali ed i potenziali critici verso l’operato del governo votato la scorsa tornata.

La spinta fortissima alla personalizzazione e la costruzione di una narrazione della serie “l’eroe osteggiato che, alla fine, prevale” ha costituito un mix formidabile per prevalere anche questa volta. Il bavaglio imposto ai mezzi di comunicazione, d’altra parta, ha certamente fatto il suo gioco sia eliminando l’incombenza caratterizzata dalla presenza televisiva di potenziali avversari, che azzerando totalmente l’agenda dei media main stream corrispondente alla parole-chiave del tipo “governo”, “Tarantino”, “Berlusconi” con tutto il carico di scandali e scandaletti. Oscurantismo ed egocentrismo ammantato di narrazioni romantiche, insomma, hanno permesso al centro-destra (anzi, sarebbe proprio il caso di dire alla destra!) di prevalere anche in quest’occasione. D’altra parte, il centro-sinistra, tra spaccature interne, alleanze non volute e non cercate. Infinite fasi di riflessione interna, astensionismo e voto di protesta (vedi il movimento di Grillo, specie in Piemonte) ha fatto per l’ennesima volta la figura della Bella addormentata nel bosco. La politica da profilo sempre basso, costi quel che costi, è costata la vittoria pure sta volta. Una vittoria che, ad ogni modo, sarebbe stata contenuta e risicata visto il dato nazionale sui votanti e le medie relative ad alcune regioni. Alla narrazione del Silvio nazionale, il Pd è capace solo di proporre la figura di Bersani. Ottimo tecnico, uomo di contenuti, abile traghettatore, ma, privo del carisma di un leader. Se pensiamo, poi, che sin dalla sua nascita il PD si è sempre servito di pseudo-leader che erano e sono piuttosto dei leader a progetto, allora, capiamo ancora meglio tutto il senso di questa sconfitta che sarebbe più opportuno definire una riedizione delle ultime politiche, con risultati più contenuti a causa del calo vistoso di elettori affluiti alle urne. L’Italia dei Valori, noto partito “del fare” (specie a livello locale), toglie voti all’ex-Udeur (che raccoglie solo briciole!), al Pd. Insomma, un po’ a tutti e così come alle politiche, ottiene il miglior risultato relativo dell’intero schieramento di sinistra. Si tenga, inoltre, in considerazione la tipologia media di elettore di sinistra e di destra. Il primo, si potrebbe dire purtroppo ancora una volta, si è dimostrato estremamente lucido, riflessivo e, se il caso, anche molto critico. Così si spiega il risultato positivo del movimento di Grillo che, per quanto si proclami fuori dal partitismo nazionale, ha certamente un’impronta di sinistra ed alla sinistra democratica ha tolto una buona fetta dell’elettorato tradizionale. Un elettorato che certamente dimostra di non aver affatto paura di perdere, così come di punire senza mezze misure il partito di riferimento. Astensionismo, voto disgiunto (si veda ancora il Piemonte sul tema) e radicalizzazione del voto hanno certamente punito il PD. Con risultati ottimi dei partituncoli-satelliti o potenziali tali che lo circondano. L’elettore-tipo della destra ha dimostrato, al contrario, una minore lucidità che gli consentisse di giudicare il proprio leader sulla base dei risultati raggiunti. Un elettore pavloviano, che vota di riflesso se ben stimolato. Una stimolazione che, vale la pena ribadirlo, soprattutto emotiva, quasi istintuale. Il leader “vittima da proteggere”, il leader “delle promesse” (che alimentano speranze, e differiscono all’infinito tutte le attese). Il votante medio è, dunque, figura dalle forti connotazioni sentimentali che, d’altra parte, s’impersona direttamente con la figura del cavaliere. Per cui la stima ed un istinto empatico- protettivo si fondono e, nella persona del votante medio, arrivano a confondersi. Ci domanda, a questo punto, la ragione dove sia. Dov’è la razionalità che valuta operati e programmi?...Così ritorna a bomba il senatur della Lega. Colui che è riuscito a spostare voti, non tanto togliendoli alle forze di sinistra, ma, strappandoli letteralmente al Cavaliere del Pdl. E’ nelle regioni in cui la gente che ha sempre votato Pdl ha, ad un certo punto, deciso di radicalizzare la propria posizione (magari per punire l’uno e premiare l’altro) spostandosi sulla Lega che è subentrata finalmente la ragione. Una ragione che ha consentito di valutare programmi, le figure dei candidati, esprimendo posizioni “critiche” nel momento del voto. Così spieghiamo il successo di Zaia, forse un po’ meno quello di Cota in Piemonte. Ma, certamente lo spostamento c’è stato. Ed andrebbe forse interpretato come l’espressione di un sentimento diffuso di malcontento verso il governo nazionale, manifestamente punito a livello locale. Per cui, a partire da questa tornata, entrambi gli schieramenti dovrebbero aprire una lunga fase di riflessione. La destra rinegoziando gli equilibri interni (tenendo conto dell’avanzata della Lega, ma, anche della presenza strategica degli ex-An). La sinistra che, proprio durante la tornata elettorale, sembra aver continuato a riflettere, dovrebbe ripensare ai propri equilibri interni ed esterni. Ma, vale la pena di ribadire anche questo, dovrebbe iniziare i casting per il reclutamento di un leader degni di questo titolo. E poi basta con i profili bassi. Vogliamo politici dinamici e corretti. Determinati, ma, non viscidi. E, ad ogni modo, finalmente capaci di non farsi mettere i piedi in testa ad ogni salotto televisivo in cui si presenti un contraddittorio. Ora basta.