L'unità come la ricordo io...

Ancora oggi, dopo tanti anni, quando sento l’espressione “unità d’Italia” la prima cosa che mi viene in mente è una bella lezione, parlo dei tempi del liceo, su tutta la fase pre-unitaria, sull’egemonia sabauda, sul grande statista Cavour. Ricordo delle prime leggi, dei governi prefettizi nel sud Italia. Ricordo della necessità di sviluppare, almeno in teoria, un impianto legislativo e di governo in grado di tenere assieme realtà che, fino a quel momento, erano considerabili come dei veri e propri mondi a sé stanti. Non era, com’è ovvio, solo una questione di dialetti. C’erano diversità antropologiche, culturali, c’erano problematiche e uomini completamente differenti. E, in modo particolare, ricordo benissimo lo strano effetto che mi faceva sentire e scorrere pagine e pagine di una storia in cui erano perfettamente distinguibili una testa ed una pancia del paese. La prima, grosso modo coincidente con il Piemonte e le regioni ricche del nord Italia, alla testa del processo di unificazione, grandi “esportatori di democrazia” e di civiltà (giusto per restare coi piedi nell’attualità) e, dall’altra parte, una pancia che, in qualche modo, si era ritrovata a subire questo processo politico che, almeno dal mio punto di vista, sembrava avere ben poco di democratico e/o di civilizzatore. Il problema del brigantaggio mi pareva essere una sorta di auto-narrazione del nemico proveniente dal Sud con cui si cercava di circoscrivere un problema per, poi, tentare di annullarlo, azzerarlo (un po’ come hanno fatto gli americani con Bin Laden. Problema che, di fatti, sembrano essere lontani dall’aver risolto). Il brigantaggio, l’antesignano della mafia dei signorotti/proprietari terrieri rappresentava la forma più avanzata di auto-governo di quelle terre. Non so se fosse giusta o ingiusta. Ma mi resta chiara, nella mente, la sensazione che a quel cattivo governo se ne fosse semplicemente sostituito un altro. Certo strutturato in modo più complesso, frutto del lavoro di statisti e giuslavoristi. Dei raffinati lumi del Nord. Vanto d’Italia. Insomma, venne spazzata immediatamente via dalla mia mente l’idea per cui il processo di unificazione potesse permettere a tutti di partire dagli stessi blocchi. Azzerando le differenze negative ed avviando all’interno del paese appena unificato un vero e proprio processo di civilizzazione. Almeno, dopo quella spiegazione e le letture, non ne ero più sicuro. Per niente. Anzi, sarà stata l’influenza degli anni dell’avvicinamento alla politica studentesca, ma, mi sentivo fortemente convinto dell’idea che, alla base di questa millantata esportazione di civiltà e sane virtù, vi fosse stato solo un clamoroso atto di prepotenza subito taciuto da coloro che ne erano stati testimoni, narratori o autori. Un comportamento che, nei fatti, si è dimostrato miope e incapace di comprendere e rispettare nel profondo tutte quelle sane e fruttuose diversità. La “questione meridionale”, che suona quasi come se l’esistenza stessa di una parte del nostro paese rappresentasse un problema o una fonte di allarme sociale, mi sembra l’apoteosi di questa che è già una incredibile esaltazione negativa di differenze. Una esaltazione che ha proprio il sapore e la forma di una discriminazione che, purtroppo, è stata immediatamente declinata nell’ennesimo punto programmatico nell’agenda di politici di destra come di sinistra, di ieri come di oggi. Ecco, un’altra, chiarissima riflessione che feci all’ascolto delle parole della prof, era che tutto quello mi sembrava incredibilmente attuale. La demonizzazione di Roma, i fondi per il sostegno alla popolazioni disagiate sotto la capitale, la lotta al brigantaggio (che ha accresciuto le qualità del suo nemico, invece di combatterle). E’ tutto clamorosamente fermo a quando ci è stata imposta l’unione del paese con regole scritte dall’esterno e con la millantata promessa di una unione conveniente per le sorti e il progresso del Paese. Se a tutto ciò si unisce, poi, il fatto che il senso “medio” della democrazia e delle istituzioni (che, nella pratica dei lavori della costituente, si è concretizzata con qualche ritardo rispetto alle più antiche e forse-solide democrazie dell’antico regime) vacilla fortemente, allora, sembra confermata l’ipotesi per cui festeggiare l’unificazione per un paese che ancora sta cercando (o forse no) la strada per appianare conflitti culturali ormai radicati suona un pelo come una contraddizione.
Partire magari da giusti ed autentici racconti di Storia potrebbe essere una soluzione per incominciare a guardare in faccia problemi e disagi che, proprio con quel barbaro processo di unificazione, si è cercato di oscurare 150 anni fa. Perché nessun processo d’unione è immune da conflitti, anche aspri. Perché in ogni paese democratico la dialettica, il contraddittorio, la smentita, la confutazione rappresentano valori. Non ingombranti paletti. Le vicende del Nord-Africa ne sono la riprova.

Davide, il paese reale, la filosofia del "not in my backyard"

Saranno state le 23 circa, sto per riprendere la macchina a piazza Mercatale per rientrare a casa dopo una cena con amici, a Urbino, quando sento a un certo punto ticchettarmi al finestrino. E mi ritrovo immediatamente di fianco un ragazzo di carnagione scura che si sbraccia come per salutarmi, come se mi conoscesse da una vita. Dopo qualche attimo di titubanza, apro la portiera e il ragazzo, con un italiano stentato, mi chiede di essere accompagnato a Fermignano, un paesino ad una decina di chilometri da Urbino. “No, scusami, ma io abito da un’altra parte”; abbozzo qualche scusa, in realtà mi prende un po’ di paura. Gli guardo le mani, cerco di anticipare con gli occhi tutti i suoi gesti più piccoli. Non riesco proprio a dire di no a un ragazzo in evidente difficoltà. Lui, come per prendere in contropiede la mia necessità (non più tanto nascosta!) di rassicurazione, esibisce subito i suoi documenti appena rinnovati. Come se si trovasse ad un posto di blocco, un check point. Forse conosce bene la diffidenza delle persone di questo posto come del suo paese o, forse, più semplicemente, si rende conto che il panico e l’ansia di rientrare a casa dopo una giornata passa alla Questura di Roma lo hanno indotto a compiere un gesto troppo avventato senza averne il diritto. Insomma. Dopo qualche esitazione, gli dico di montare in macchina e che lo avrei portato io a casa. A quell’ora autobus zero. Già mi immagino, qualche minuto prima del mio arrivo alla macchina, come lo avrà trattato il tipo dei bus. D’altronde li vedo tutti i giorni, da sei anni oramai. “Scusi, per caso ancora autobus chi va a Fermignano?” - gli avrà detto Davide o, almeno questo è il nome con cui mi si è presentato – “No, a quest’ora niente (silenzio)”…..”Grasie”…Viene dalla Nigeria, 32 anni credo di aver capito. Muratore impiegato in una piccola azienda di Fermignano. Ma come ci sarà arrivato a Fermignano uno che viene dalla Nigeria?...ho perso l’occasione di chiederglielo. A quel punto, per rompere il silenzio e l’evidente imbarazzo inizio a fargli qualche domanda in inglese sulla sua abitazione, sulla vita nel piccolo paesino, sulla diffidenza della gente del posto. Ma lui, forse perché offuscato dalla gioia per aver trovato un modo di rincasare o semplicemente perché pensava che fossi uno del posto, mi descrive una vita piuttosto senza, senza grandi problemi, a parte i soldi e il lavoro. Gli spiego che il sindaco di Fermignano fa parte di un partito italiano che non ha posizioni molto tenere nei confronti degli immigrati. A quest’affermazione, il ragazzo sembra cadere dalle nuvole. E, in fin dei conti, la cosa sembra anche interessargli poco e lo capisco. Una volta riuscito a sistemarti, a metterti in regola, ad avere un lavoro onesto e a fare anche solo un piccolissimo passo per uscire da quello stato di povertà assoluta che ha tagliato come un’accetta tutta la tua esistenza fino a quel momento. Posso capire perfettamente come, a conti fatti, Davide se ne fotta altamente di essere amministrato da un sindaco dei Verdi, della Lega o di qualsivoglia altro partito politico. Questo è giochetto tutto nostro. Anzi, di coloro che, tutto sommato, riescono ad arrivare fino alla quarta settimana e chiedono a voce alta un posto riservato nei salotti. Davide è, insieme a molti altri milioni di persone, una parte integrante del nostro paese. O meglio, del paese reale. Che cerca lavoro, giustizia, aiuto e, più di ogni altra cosa, una vita di dignità e di diritto. Il ragazzo mi racconta che usa una vecchia bici per andare a lavorare. Mi dice che prende circa 50 euro al giorno anche se, tra tasse e ritenute, guadagna molto poco e sembra qusi pentirsi di essersi messo in regola. Forse, col nero, avrebbe guadagnato di più. Davide lavora, in media, tredici ore al giorno ma non tutti i giorni. Quando c’è bisogno. Poi le spese, le bollette, il viaggio periodico a Roma per rinnovare la regolarizzazione della sua presenza in questo paese. Questo incontro, fortuito per entrambi, mi ha fatto pensare ad almeno due cose. La prima riguarda la fatica enorme che avrà fatto una persona sradicata dal proprio paese e costretta all’emigrazione per sopravvivere. Ingabbiata in un lavoro che ti permette di sopravvivere, ma, non di essere felice. Di vivacchiare, ma, non certo di tornare spesso nel tuo paese d’origine. Un po’ come il classico emigrante che, da sud a nord, va in cerca di lavoro ma perde completamente le base che hanno costruito la sua persona, la sua vita, le sue emozioni. Tutto per cercare lavoro. Tutto per finirne, poi, con l’essere schiavi. In Davide, come in molti altri immigrati, ho rivisto quel velo di tristezza che nemmeno un isolato gesto di gratitudine può essere capace di cancellare. Quella tristezza sembra essersi insediata fin nel profondo della sua povera anima. D’altra parte, il gesto isolato è inevitabilmente letto come una miope espressione di pietà nei suoi confronti. Ed è questa, almeno per me, la miccia di ogni scontro, di ogni possibile incomprensione. Sta tutto nel nostro modo di fare che oscilla continuamente e in modo schizofrenico tra una accettazione sbandierata in piazza (l’uguaglianza per tutti, a tutti i costi) ed una ben più intima repulsione. E siamo ancora fermi a questo step. Parliamo molto di integrazione, della necessità di accettare una presenza straniera che oramai si sta facendo massiccia e, in pari tempo, significativa dal punto di vista occupazionale, della produzione di ricchezza e consumo. D’altra, invece, quando si tratta di avere a che fare direttamente con problemi legati alla convivenza, alla multiculturalità tiriamo fuori tutte le nostre psicosi sociopatiche, tutte le ansie di un popolo insicuro e profondamente diviso. Regionale e biologicamente provinciale. La sproporzione tra le parole dette e i gesti realizzati diventa, in questo modo, scandalosamente preoccupante. Per cui, non mi vergogno nel dire che attraverso quel passaggio dato e non negato con leggerezza ho cercato di naturalizzare un gesto che, in un altro momento della mia vita, avrei negato con altrettanta naturalezza. Qui pago lo scotto dell’ipocrisia naturale (e tutta italiana!) di cui non faccio fatica ad ammettere di esser vittima. Ma certamente non sarei andato a letto così soddisfatto come ora. Mi sento piuttosto orgoglioso. Forse è triste, forse è stupido. Forse è semplicemente la chiusura perfetta del cerchio dell’ipocrisia di chi lancia il sasso poi nasconde la mano dietro un piccolo gesto come quello che ho raccontato. Forse, tutto questo non dovrebbe nemmeno essere argomento per un post. Tuttavia, ne ho avvertito la necessità. Non tanto per “i lettori” quanto per me…E il cerchio si chiuse due volte…

IL TEMPO MI FA MALE ALLE OSSA E AL CUORE....

Sto posto (che, detto per inciso, sarebbe Urbino) non solo quando nevica, ti mette un’ansia devastante. Oggi mi sono praticamente occupato solo della casa, dell’ordine, dell’auto. Il vicino mi ha letteralmente tirato fuori da questo muro di ghiaccio formatosi durante la notte e cementatosi con la neve del mattino. L’ordine. Ma quanto tempo della mia vita avrò già speso per fare ordine tra le cose che ho, che ho avuto, che vorrei. Tanto, tantissimo tempo rubato all’invenzione di qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo per me, nella mia vita. Allora ti rispondi che è tutta una questione di equilibrio. Non npe sei totalmente certo, quindi chiedi consiglio ad una persona amica che ti risponde che è tutta una fottuta questione di equilibrio. Ma, poi, penso. Se è tutta una questione di equilibrio tra elementi, variabili, questo approccio alla soluzione del problema non è, allo stesso tempo, l’espressione diversamente articolata della sua stessa causa. Per intenderci, il cazzo di equilibrio tra le cose non è, alla fine ma poi non tanto, solo un altro modo di programma le cose, archiviarle. Metterle di nuovo in fila, ma con una nuova etichetta?...Siamo al punto di partenza. Come si sconfigge la tendenza all’ordine nella testa di un ragazzo datato un quarto di secolo, proveniente dal sud e, per di più, da una famiglia che col suo lento disgregarsi non ha fatto altro che insegnargli a tenere tutte le cose unite. Le parti del corpo, con l’alimentazione. Le parti del cervello, senza fare uso di alcool o droghe. Le parti della mente con lo studio assennato e l’osservazione permanente di modelli virtuosi di comportamento. E così anche con tutte le parti che compongono la mia vita. Ovvero, i pezzi, le propaggini, i prolungamenti della mia insicurezza, della mia debolezza che si nasconde dietro un dito. Vestiti più o meno puliti e ordinasti per colore (non sono ancora arrivato a graduarli sulle sfumature di colore, spero di non arrivarci mai). La macchinina parcheggiata sempre in vista e ben pulita. Pulsioni maniacali alla pulizia di cui mi pento immediatamente come se fossi un ladro. Pulire nel cuore della notte. Fare tardi a un appuntamento (d’amicizia, d’amore, di lavoro) perché ci si è soffermati a pulire la tazza del cesso che mostrava puntini neri sul bordo e opacità al centro mai notate fino alla pisciatine notturna della giorno prima. Pulsioni irrefrenabili di cui riesco anche a ricostruire l’origine, di cui, alla fine, riesco a fornire anche un identikit completo. Con tanto di complessi edipici, traumi infantili, mancanze d’affetto, ossessioni e pulsioni. E ci mancherebbe altro. Sono o non sono un tipo fottutamente ordinato. Peggio di un marine a cui abbiamo insegnato a lucidarsi ogni mattina persino il buco del culo a comando.

Poi pensavo anche a sto posto e l’amore. Non ho quasi più niente da scoprire sulle possibilità di innamoramento che ti concede un posto del genere. Essì. Perché da un po’ di tempo a questa parte la sto buttando sul discorso del fattore ambientale. Silvio vive dentro di me e me ne sto accorgendo solo ora. Ad ogni modo, cerco da un pò ti tempo di rifugiarmi dando la colpa o a quello che l’ambiente mi propone o a quello che vorrei ma che questo maledettissimo ambiente non è in grado di darmi. Se fossero vere queste condizioni dovrei ammettere: che io non sono fatto per determinati tipi di posti per cui, dopo un determinato periodo di sopravvivenza, sono costretto a darmela a gambe elevate. O, in alternativa, che o dei bisogni amorosi, delle necessità sentimentali che questo posto davvero non sembra essere in grado di esaudire. Sulla prima posso anche essere d’accordo, con un buon grado di serenità. Se, invece, fosse vera la seconda dovrei preoccuparmi. Se, poi, la prima e la seconda ipotesi fossero in qualche modo collegate allora si che dovrei ritenermi con un piede nella merda visto il tempo che mi resta da vivere quì e la mia non più giovine età. Risultato? Mi sento un bambino con scarsissime capacità relazionali, quasi sempre insoddisfatto. Alla ricerca di nuove conoscenze ma, nei fatti, poco aperto al confronto con esperienze davvero nuove. Insomma. Lascio passare le giornate, le settimane coprendomi dietro una routine quotidiana che mi affanna ma non mi spegne. Mi coinvolge ma non mi seduce mai del tutto. Così come per le amicizie che “questo posto” mi sta regalando. Contenitori senza peso, barattoli sparsi senza etichetta ma con una data di scadenza enorme, scritta a caratteri cubitali e bel leggibile anche per un miope di “vecchia data” (appunto) come me. E, intanto, le persone che hanno condito davvero la mia vita insaporendola sono via, fuori da qui. In un altro mondo. Magari staranno fronteggiando scelte difficili, grandi delusioni, nuovi sentimenti, emozioni inaspettate. A volte mi immagino di essere al loro fianco. Sai, un po’ come quando sei il primo che abbraccia l’amico che hanno appena proclamato col massimo dei voti In quell’abbraccio ubriacante e vigoroso ci si scambiano energie, c’è vigore. C’è una enorme voglia di vivere. Ma c’è anche passione, affetto, debito reciproco. Perché, prima di essere avvolto da quell’abbraccio, sei stato (anche se in una frazione di secondo) scelto, selezionato in quella moltitudine di persone accorse per celebrarti. Ecco, io è da un po’ che non mi sento più l’oggetto di quella bellissima scelta. Non mi sento più importante per nessuno che sia davvero importante per me. E la cosa, oltre a non piacermi, mi fa stare davvero male…

IL TEMPO MI FA MALE ALLE OSSA E AL CUORE....

Sto posto (che, detto per inciso, sarebbe Urbino) non solo quando nevica, ti mette un’ansia devastante. Oggi mi sono praticamente occupato solo della casa, dell’ordine, dell’auto. Il vicino mi ha letteralmente tirato fuori da questo muro di ghiaccio formatosi durante la notte e cementatosi con la neve del mattino. L’ordine. Ma quanto tempo della mia vita avrò già speso per fare ordine tra le cose che ho, che ho avuto, che vorrei. Tanto, tantissimo tempo rubato all’invenzione di qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo per me, nella mia vita. Allora ti rispondi che è tutta una questione di equilibrio. Non npe sei totalmente certo, quindi chiedi consiglio ad una persona amica che ti risponde che è tutta una fottuta questione di equilibrio. Ma, poi, penso. Se è tutta una questione di equilibrio tra elementi, variabili, questo approccio alla soluzione del problema non è, allo stesso tempo, l’espressione diversamente articolata della sua stessa causa. Per intenderci, il cazzo di equilibrio tra le cose non è, alla fine ma poi non tanto, solo un altro modo di programma le cose, archiviarle. Metterle di nuovo in fila, ma con una nuova etichetta?...Siamo al punto di partenza. Come si sconfigge la tendenza all’ordine nella testa di un ragazzo datato un quarto di secolo, proveniente dal sud e, per di più, da una famiglia che col suo lento disgregarsi non ha fatto altro che insegnargli a tenere tutte le cose unite. Le parti del corpo, con l’alimentazione. Le parti del cervello, senza fare uso di alcool o droghe. Le parti della mente con lo studio assennato e l’osservazione permanente di modelli virtuosi di comportamento. E così anche con tutte le parti che compongono la mia vita. Ovvero, i pezzi, le propaggini, i prolungamenti della mia insicurezza, della mia debolezza che si nasconde dietro un dito. Vestiti più o meno puliti e ordinasti per colore (non sono ancora arrivato a graduarli sulle sfumature di colore, spero di non arrivarci mai). La macchinina parcheggiata sempre in vista e ben pulita. Pulsioni maniacali alla pulizia di cui mi pento immediatamente come se fossi un ladro. Pulire nel cuore della notte. Fare tardi a un appuntamento (d’amicizia, d’amore, di lavoro) perché ci si è soffermati a pulire la tazza del cesso che mostrava puntini neri sul bordo e opacità al centro mai notate fino alla pisciatine notturna della giorno prima. Pulsioni irrefrenabili di cui riesco anche a ricostruire l’origine, di cui, alla fine, riesco a fornire anche un identikit completo. Con tanto di complessi edipici, traumi infantili, mancanze d’affetto, ossessioni e pulsioni. E ci mancherebbe altro. Sono o non sono un tipo fottutamente ordinato. Peggio di un marine a cui abbiamo insegnato a lucidarsi ogni mattina persino il buco del culo a comando.

Poi pensavo anche a sto posto e l’amore. Non ho quasi più niente da scoprire sulle possibilità di innamoramento che ti concede un posto del genere. Essì. Perché da un po’ di tempo a questa parte la sto buttando sul discorso del fattore ambientale. Silvio vive dentro di me e me ne sto accorgendo solo ora. Ad ogni modo, cerco da un pò ti tempo di rifugiarmi dando la colpa o a quello che l’ambiente mi propone o a quello che vorrei ma che questo maledettissimo ambiente non è in grado di darmi. Se fossero vere queste condizioni dovrei ammettere: che io non sono fatto per determinati tipi di posti per cui, dopo un determinato periodo di sopravvivenza, sono costretto a darmela a gambe elevate. O, in alternativa, che o dei bisogni amorosi, delle necessità sentimentali che questo posto davvero non sembra essere in grado di esaudire. Sulla prima posso anche essere d’accordo, con un buon grado di serenità. Se, invece, fosse vera la seconda dovrei preoccuparmi. Se, poi, la prima e la seconda ipotesi fossero in qualche modo collegate allora si che dovrei ritenermi con un piede nella merda visto il tempo che mi resta da vivere quì e la mia non più giovine età. Risultato? Mi sento un bambino con scarsissime capacità relazionali, quasi sempre insoddisfatto. Alla ricerca di nuove conoscenze ma, nei fatti, poco aperto al confronto con esperienze davvero nuove. Insomma. Lascio passare le giornate, le settimane coprendomi dietro una routine quotidiana che mi affanna ma non mi spegne. Mi coinvolge ma non mi seduce mai del tutto. Così come per le amicizie che “questo posto” mi sta regalando. Contenitori senza peso, barattoli sparsi senza etichetta ma con una data di scadenza enorme, scritta a caratteri cubitali e bel leggibile anche per un miope di “vecchia data” (appunto) come me. E, intanto, le persone che hanno condito davvero la mia vita insaporendola sono via, fuori da qui. In un altro mondo. Magari staranno fronteggiando scelte difficili, grandi delusioni, nuovi sentimenti, emozioni inaspettate. A volte mi immagino di essere al loro fianco. Sai, un po’ come quando sei il primo che abbraccia l’amico che hanno appena proclamato col massimo dei voti In quell’abbraccio ubriacante e vigoroso ci si scambiano energie, c’è vigore. C’è una enorme voglia di vivere. Ma c’è anche passione, affetto, debito reciproco. Perché, prima di essere avvolto da quell’abbraccio, sei stato (anche se in una frazione di secondo) scelto, selezionato in quella moltitudine di persone accorse per celebrarti. Ecco, io è da un po’ che non mi sento più l’oggetto di quella bellissima scelta. Non mi sento più importante per nessuno che sia davvero importante per me. E la cosa, oltre a non piacermi, mi fa stare davvero male…