Internet e democrazia: vox dei, vox populi.....

Alla luce del dibattito più recente (non solo accademico) relativo al complesso rapporto tra internet e democrazia, sento l’esigenza di mettere nero su bianco alcune personali riflessioni che, credo, possano contribuire a definire i contorni, ad oggi ancora troppo sfumati, di un tema sociale così attuale e delicato. Innanzitutto, è evidente che la relazione internet/democrazia venga descritta in modo diverso a seconda della prospettiva da cui viene osservata. Ciò può rappresentare, allo stesso tempo, un bene e un male. Un bene perché in questo modo è possibile arricchire con numerose riflessioni differenti (magari anche complementari tra loro) un dibattito tutt’altro che chiuso. Dall’altra, ciò può costituire un male: 1) nel momento in cui discutere della relazione tra internet e democrazia diviene un modo per dare tocco di (post)modernità all’operato della propria amministrazione (giunta, consiglio, organo di governo) più o meno liberal o, peggio, quando tale discussione diventa immediatamente una rassegna degli errori, delle gaffe, delle esperienze più o meno personali ma dai risvolti tragicomici della serie “sapete quanti contatti abbiamo avuto nella pagina semi-ufficiale del sindaco tal dei tali…??? (suspance nel pubblico tirata fino all’estremo)”, oppure, “abbiamo capito la reale importanza della Rete quando il consulente x ci ha illuminati sulle capacità miracolose del web 2.0..”; 2) quando non si ignora deliberatamente l’esistenza di una produzione/riflessione accademica su quei temi. Riflessione che, essendo apolitica per definizione (a volte solo per definizione!). ovvero, scevra dall’obbligo di soddisfare il committente di turno, potrebbe aiutarci ad analizzare con maggiore trasparenza e profondità i contorni dell’oggetto d’analisi. Per chiarire le idee sul tema, a me stesso prima che a chiunque altro, credo sia necessario gettare le basi della discussione, prima di tutto, attorno all’oggettivazione di tre distinti ambiti di riflessione che non pretendono di esaurire la discussione e nemmeno di essere pienamente dotati di senso (sottolineare la perfettibilità del ragionamento non serve solo ad avere un minimo di difese immunitarie, ma, costituisce un obbligo in questo momento storico). Dunque, quando si parla del rapporto tra internet e democrazia, un primo livello di confusione sopraggiunge nel momento in cui si tendono a mescolare elementi provenienti da ambiti di discussione che si farebbe meglio a considerare separati, ovvero: 1) La Politica della Rete, ovvero, tutto ciò che riguarda: - le opzioni strategiche legate ai processi di gestione dell’hardware e del software da parte di governi, gruppi di pressione (di natura politica) e/o attori politici nazionali/internazionali; - la realizzazione di nuove alleanze tra governi, tra governi e comunità locali, tra (aggregati di) lobby e (aggregati di) governi, tra start-up tecnologiche e governi a partire dalla sottoscrizione di accordi per l’adozione di linee di condotta condivise in merito alla gestione di Internet inteso come (combinazione di) spazio, relazioni e contenuti; 2) La Politica in Rete che, da una parte, coincide (o, per lo meno, dovrebbe) con un atteggiamento (mentale, non formale!) di apertura verso la necessità/sfida di attribuire nuovo senso all’espressione “partecipazione politica” senza cadere nella trappola tesa dalla semantica pre-digitale e, dall’altra, con l’identificazione delle piattaforme on line in cui essa si materializza come di semplici “ambienti abilitanti”. Espressione quest’ultima che manifesta la volontà di privilegiare l’osservazione della relazione nuda e cruda tra proprietà tecniche e scenari possibili piuttosto che l’adozione di un determinismo tecnologico che fa bene ad amministratori pubblici e giornalisti aristofreak, ma, non certo alla riflessione scientifica. 3) “Politica con la Rete”, ovvero, l’incarnazione di una prospettiva strumentale all’uso delle nuove tecnologie intese come casse di risonanza di contenuti elaborati, il più delle volte, in occasione di scadenze elettorali e/o a fini auto-promozionali. Sempre secondo un gergo ed una semantica politica di tipo pre-digitale. Tale espressione, nella pratica rappresentata dalle esperienze politiche nostrane, oggettiva una fase intermedia nell’uso delle tecnologie di rete. Fase dalla quale molti (politici, soggetti dell’informazione, accadamici) credono di essersi più o meno definitivamente smarcati anche se, di fatto, non è così. Qui torna a bomba il discorso/problema sui punti di osservazione. Ciò che per un politico può rappresentare una best practice per il semplice cittadino è solo un modo per contenere il potenziale rivoluzionario di una cittadinanza stanca e/o di un popolo largamente disaffezionato alla politica. Il problema qui non è tanto la presenza di punti d’osservazione differenziati quanto il fatto che una certa dirigenza politica ed economica (antropocentrica e filo-occidentale) cerca con grande dispendio di energie di imporre la propria visione relativa a ciò che è o non è partecipazione politica intesa come “politica in Rete” e ciò che è (o non è) espressione di un modo nuovo di intendere (e di praticare) la democrazia rappresentativa ai tempi di internet. Tornando al punto di partenza, penso che un secondo livello di confusione relativo al rapporto tra internet e politica avvenga tra due termini che continuano ad essere intesi come logicamente consequenziali e che, più in generale, rallentano il cammino dell’analisi scientifica verso la definizione di che cos’è e che forme assume la partecipazione politica in Rete. I termini oggetto d’accusa (e dell’ennesima mistificazione) sono organizzazione e partecipazione. Ciò perché spesso vengono tirati in ballo grandi e piccoli esempi di organizzazione on line di stampo politico come se fossero l’inconfutabile prova dell’affermazione di un nuovo modo di intendere la partecipazione politica. Più che altro, però, questi mi sembrano essere esempi di come la politica (la più scaltra, non la più moderna!) piega gli strumenti tecnologici in vista del raggiungimento dei propri scopi (definiti fuori della Rete, processati in Rete, osservati e misurati di nuovo fuori dalla Rete). Inoltre, l’organizzazione on line di attori collettivi (anche di stampo politico) manca quantomeno di due elementi tipici della partecipazione politica: 1)la costruzione di un percorso, 2) la presenza di un individualismo orientato alla cooperazione e, soprattutto, alla pro-azione con livelli variabili di creatività. Può rappresentare un nodo contraddittorio il fatto che abbia in mente una definizione di partecipazione politica mutuata dalla letteratura esistente quando cero di definire ciò che si sta dispiegando sotto i nostri occhi. E, per questo, sono sicuro di non dire nulla di esauriente o di nuovo né, tanto meno, di definitivo (ci mancherebbe!). Mi sto solo sforzando di inquadrare ciò che osservo secondo l’unico metodo compatibile con le mie (personali) definizioni di etica e di morale: un realismo critico che non si lasci incantare dalle sirene dell’idealismo o del pragmatismo.

La caduta del nano e la fine di un sog(n)no....

Onestamente faccio fatica a comprendere la ratio di alcuni atteggiamenti che si sono materializzati nel paese all’alba delle dimissioni (indotte o meno) che hanno segnato la fine dell’ennesima parabola di Berlusconi. Partiamo dalle immagini di gioia per le strade di Roma. Posso sentirmi vicino solo a quanti abbiano voluto esprimere con quel gesto un momento breve e vissuto con un velo di tristezza, ma, anche di gioia per la caduta di un governo che fino ad oggi, facendo da tappo, ha impedito di iniziare a sviluppare soluzioni concrete per uscire dalla crisi e ridare una credibilità internazionale al nostro paese. Ai lanciatori di monetine della prima ora dico che non hanno capito veramente niente degli eventi che si sono succeduti negli ultimi giorni. La crisi e il passaggio nelle retrovie di questo governo non sono il risultato di una battuta d’arresto consumatasi all’interno del nostro paese. Di fatto, questa non è stata una crisi di consenso o di credibilità interna nei confronti di Berlusconi. Niente elezioni anticipate, niente cambiamento di rotta voluto dagli italiani ed espresso mediante il voto. Il modo che ha determinato la fine di questo governo rende B. quasi una vittima nelle mani del carnefice rappresentato dall’Unione Europea e da quella famiglia plutocratica di banchieri ed uomini d’affari prestati alla politica. E, ancora una volta, la cosa sembra avere dei risvolti positivi a favore di quell’uomo che, più o meno ininterrottamente, ha dominato la scena politica italiana per circa 17 anni. Si, perché ora egli avrà la possibilità di mostrarsi all’opinione pubblica come colui che ha fatto di tutto per sfuggire alle grinfie dei cattivoni della Banca Centrale Europea o del Fondo Monetario Internazionale. Come il salvatore della patria che, alla fine e dopo numerosi tentativi, si è visto costretto a cedere le redini di un paese per garantirne la salvezza. Un capre espiatorio degno di un racconto biblico. Il capre che, fino al discorso lanciato ieri sera a reti unificate, si è giocato a spron battuto due formidabili carte: da una parte, quella dell’anti-europeismo sfrenato e ortodosso per cui tutto il male viene dall’esterno e noi, con le nostre forze ed un debito pubblico a rischio, che abbiamo potuto solo tentare di resistere a pressioni, ingiurie, calunnie e sberleffi. Dall’altra, la linea ascrivibile al paradigma del “lascia o raddoppia” per cui se tutti credevamo che B. approfittasse della “congiura/congiuntura internazionale” per uscire di scena, egli ci stupisce ancora una volta annunciando un intensificazione degli sforzi politici per ridare lustro e autorevolezza al paese e ai suoi conti pubblici.
La successione così rapida degli eventi ha contribuito ad alimentare argomentazioni deboli e, in alcuni casi, facilmente falsificabili. Così come reazioni emotive e prese di posizione incomprensibili (tra cui inserisco, ad esempio, quella del PD in favore di un governo tecnico piuttosto che per le elezioni anticipate). In questo marasma, credo che il quadro più autentico della situazione emerga dall’analisi delle parole pronunciate da B. nel suo video-discorso. Che è, allo stesso tempo, un tuffo nostalgico nel passato ed una nuova dichiarazione di guerra. Verso i nemici interni ed esterni al partito così come alla nazione. Inoltr, non va trascurato il fatto che il governo Monti non è il frutto di consultazioni inter-istituzionali consumatesi dopo lo scioglimento del precedente governo, ma è, piuttosto, un gruppo di accademici semi-sconosciuti e tenuti al guinzaglio sia dall’Unione Europea che da B. A questo punto, dunque, si capisce come ci sia veramente poco da festeggiare in questo momento. Nessuno è morto, sparito o è stato dichiarato sconfitto da un verdetto politico incontrovertibile. Sugli eventi che si sono succeduti, B. può ancora sviluppare una sua visione delle cose. E, mentre il governo tecnocratico fa le cose, lui potrebbe cercare di imporre quella visione al suo pubblico e ai suoi alleati. Una visione che, alla fine, potrebbe permettergli di recuperare credito, credibilità e sostegni giusto in tempo per la prossima tornata elettorale. Il messaggio lanciato durante il convegno de LaDestra di Storace è emblematico da questo punto di vista. Dunque, non è finito proprio un bel niente. Anzi, pare che anche l’opposizione abbia come paura di un vuoto dopo la fine del berlusconismo. E, così, invece di assumersi la responsabilità di riportare il diritto di parola nelle mani e nelle matite degli italiani, essa si è fatta carico dell’ennesima manovra di “sostegno responsabile” ad un governo, ad una parte politica che, ascoltando la propria base sociale di riferimento, avrebbe dovuto osteggiare con tutte le sue forze. E, come scritto prima, ci si protegge dietro l’alibi vergognoso e insensato dell’atto di responsabilità per il bene del paese. Quando, in tempi normali, di questo paese non fotte niente a nessuno. E la riprova di ciò sta nel fatto che abbiamo dovuto aspettare la costituzione di un fronte internazionale accanito contro di noi ed il nostro governo per capire che andavano fatte delle riforme economico-finanziarie coraggiose e che la loro realizzazione implicava un cambio di rotta anche all’interno delle istituzioni di governo. Ciò, d’altra parte, non può non farmi pensare al fatto che non siamo stati capaci di contrastare questo governo dall’interno. Con una rivoluzione interna alla società civile, ai partiti d’opposizione. Ancora una volta, come la storia patria c’insegna, siamo stati liberati da un agente esterno, da una coincidenza di eventi che sono andati al di sopra e al di là di noi. E che, alla fine, ci hanno schiacciato, ci hanno sopraffatto. Niente alternanza di governo, niente bipolarismo perfetto (mi sarebbe andato bene anche lievemente imperfetto), niente voto, niente democrazia rappresentativa. Siamo stati costretti al cambiamento da una serie di atti di forza perpetrati dall’esterno e dall’alto. Tuttavia si sa che, come la storia dei popoli insegna, una forza in grado d’innescare un cambiamento non può essere rappresentata da chi si trova al governo e manovra un popolo. L’estabilishment non può chiedere novità o mutamenti radicali perché questi presuppongono la realizzazione di una rivoluzione sociale fondata sulla volontà (necessità) di spazzar via quello stesso assetto di potere. Qui sembra ci si stiano ridefinendo gli assetti, i rapporti di forza. Ma si tratta di un cambiamento interno alla solita famigliola di potentati in cui spiccano Finanza, Mercati, Istituzioni e Banche (non dico politica perché in essa vi rientrano anche partiti, membri ed elettori che in questo caso, com’è evidente, sono tagliati fuori dal processo).
Questa ibridazione di campi (politica ed economia, andamento dei mercati e credibilità dei governi) dunque, ha mostrato e sta portando alla luce tutto il suo potenziale cancerogeno per la politica e il governo delle democrazie Occidentali. Potenziale di cui ancora non prendiamo atto perché siamo troppo impegnati a capire quale sarà la squadra di governo del professor Monti (uomo di finanza, cervello fuggito all’estero e, dunque, apprezzato dal consesso dei leader europei).
Ad ogni modo, indipendentemente da ciò, io credo che oggi si stia consumando una sconfitta profonda e multipla:
•del governo nazionale (per dichiarata incapacità di affrontare la crisi se non aumentando le tasse e limitando la spesa anche per manovre di riforma);
•del presidente del consiglio a causa di una perdita di credibilità che gli ha impedito di rassicurare i mercati e i politici del resto del mondo;
•delle opposizioni al governo perché assolutamente incapaci di reagire ad un momento di crisi della maggioranza spingendo per il voto anticipato e cogliendo l’occasione per la promozione di un’agenda fatta di impegni, manovre, soluzioni per uscire dalla crisi e restituire fiducia ad un paese depresso e frustrato;
•degli organi politici sovranazionali perché letteralmente schiavi dell’andamento dei mercati, dei titoli di Stato, degli indici finanziari (“la politica dello spread”)

Si badi bene, però, la mia critica verso l’Unione Europea è strutturale ed è, in modo particolare, il frutto della profonda amarezza per ciò che quest’organismo sarebbe potuto essere ma che, alla fine, non è stato. Esso non c’entra niente, dunque, con l’atteggiamento anti-europeista adottato a corrente alternata da Berlusconi e dal suo governo uscente. Comportamento che se, da una parte, è il segnale di un’incoerenza ai limiti della schizofrenia, dall’altra, lascia emergere la crisi definitiva di una speranza. Speranza in un cambio di paradigma della politica. Speranza in un governo internazionale in grado di dare una direzione e una testa alla Globalizzazione spinta dell’economia e dei mercati.

Vox populi, vox dei: quando il carro dei vincitori andrebbe solo rottamato...

Una volta delineatosi il quadro relativo ai risultati dei vari quesiti referendari. Una volta scongiurato con matematica certezza il rischio della mancanza del quorum è, com’è evidente, scoppiato lo scontro interno alla famigliola politica attorno ai dati e, con essi, sono proliferati con incredibile velocità diversi tentativi d’analisi del voto. Tutti spasmodicamente tesi a sottolineare le esatte proporzioni con cui si sono distribuiti successi e insuccessi, onori e disonori, capacità profetiche e prove di incompetenza politica. Tra i vari partiti, le coalizioni. Così da ricreare due grandi partiti, due famiglie. Da una parte i vincitori: firmatari, promotori ed elettori. Dall’altra, i perdenti: il governo, il centro-destra, Berlusconi. Due partiti in cui, tuttavia, sono stati re-introdotti gli stessi personaggi, ridisegnate le geometrie di un potere che, alla fine, è sempre saldo nelle mani dei soliti (ig)noti. Il via, stavolta, lo ha dato Calderoli che, commentando il risultato al referendum, ha parlato di due sberle (amministrative e referendum) forse tre (la prossima potrebbero riceverla con la fiducia al governo) che sarebbero state scagliate evidentemente da parte dell’opposizione politica o da chi per loro. Anche Vendola, di solito diplomatico e dotato di buon senso, non ha resistito alla voglia di rivendicare a sé ed al proprio partito (anch’esso personale come quello del nostro premier) se non tutti, buona parte dei meriti della vittoria dell’immenso e trasversale popolo del SI. Un popolo in cui, a ben vedere, hanno contato in modo determinante:
- gli elettori del Terzo Polo;
- coloro che, di solito, votano Pdl e uno dei diversi partiti di governo;
- i cosiddetti indecisi che si sono mobilitati in buona parte;

Per cui, a ben vedere, non si può parlare affatto di vittoria o sconfitta. Praticamente per nessuno dei partiti attualmente facenti parte dello spettro politico nazionale. Questo, se fossero stati degli analisti obiettivi, avrebbero dovuto capirlo in seguito al risultato elettorale delle amministrative che, in generale, hanno segnato una profonda sconfitta nei confronti di tutti i partiti. Una sconfitta che risiede, come il referendum ha confermato, non tanto nella voglia di votare altro quanto, piuttosto, nella profonda incapacità del panorama politico di offrire programmi concreti, governi di lungo periodo, facce nuove e credibili. La vittoria di De Magristris a Napoli, ad esempio, invece di determinare grande gioia ed entusiasmi nel popolo della sinistra avrebbe dovuto avviare una fase di rielaborazione della propria offerta politica. Un’offerta, ad oggi, scadente, contigua con quella della fazione opposta ma, soprattutto, incapace di essere aderente alle necessità della gente. Se, dunque, con le amministrative la gente ha lanciato un messaggio di profonda sfiducia (della serie “non sappiamo più chi possa rappresentarci per cui ci affidiamo ancora ai meno sputtanati della lista”) verso la politica; con il referendum il messaggio contiene, invece, una profonda voglia di rivendicare a sé (il popolo sovrano) la voglia e il diritto di imporre l’agenda dei temi politici a politici, nazionali e locali. La voglia di partecipare a questo messaggio corale è, inoltre, stata trasversale ed ha spinto chi di solito non vota a dire come la pensa. E chi di solito non vota ha detto, in buona sostanza, “basta a questo modo di concepire e praticare la politica”. Per cui, anche in questo caso, non ci sono vincitori né vinti. C’è un modo di fare politica e, allo stesso tempo, una classe dirigente che ha superato metà della strada che la separa dal tramonto definitivo. Certo, apparentemente può emergere la vittoria dei cosiddetti “partitini” alla Sel o Idv. Ma io, dietro la preferenza accordata a questi partiti/persone, ci vedo un voto di ripiego, di frustrazione derivante dalla delusione verso l’operato dei grandi partiti (d’altra parte, i flussi elettorali più recenti testimoniano una migrazione proprio in questa direzione!).
Ad ogni modo, capisco che vi sia una buona componente di premeditazione nella volontà di sottolineare come le “due sberle” di cui sopra siano associate automaticamente ad una vittoria della sinistra e, dunque, ad una sonora sconfitta della destra. Forse perché, da una parte, si fa fatica ad immaginare (e programmare) un paradigma del fare politica che sia finalmente in grado di superare la contrapposizione secolarizzata tra le solite facce (da Di Pietro a Vendola a Berlusconi, in modo trasversale) di destra e di sinistra. Che sia capace di accogliere il risultato del referendum non come un punto da assegnare alla squadra dei SI, ma, come la volontà di abrogare qualcosa che è stato proposto. Qualcosa a cui, tuttavia, vanno contrapposti un modello di vita, individuale e collettiva, nuovo, sostenibile e condiviso da tutti. E’ finito il tempo in cui i partiti si facevano portatori della voce della propria base di riferimento. Un tempo in cui le indicazioni dei leader erano in grado di predire davvero i risultati elettorali (il tempo in cui i partiti erano carichi di ideologie e un tempo, ormai passato, in cui i leader erano facce che godevano di largo seguito e rispetto nell’elettorato). La dimensione verticale sta morendo. Oggi è il tempo in cui la gente vuole discutere di tutto. Vuole contare, vuole decidere, vuole partecipare. E la cosa, se finisse qui, sarebbe un fenomeno di rigurgito anti-partitico e anti-istituzionale tutto sommato comprensibile e giustificabile entro gli schemi d’analisi classici. Ma c’è di più. La gente vuole partecipare a partire da nuove forme di aggregazione, vuole decidere non solo i temi, ma, anche fini e metodi d’azione. A ulteriore testimonianza di quanto profondo (e, credo, maturo) sia l’avversione nei confronti di un modello che si è pronti a rimpiazzare già da domattina. D’altra parte, il ritorno di termini come “bene comune” e “azione collettiva” così come dell’azione diffusa, orizzontale e cooperativa delle associazioni pro-referendum fanno davvero ritornare con la memoria ai primi anni ottanta, alle discussioni anti-nucleare, alla fusione di quell’istanza con una società civile (organizzata o meno) che aveva una gran voglia di andare al di là dei famigerati blocchi per dire la propria sull’uso civile del nucleare. Rifiutando, anche in quel caso, un modello di fare politica. Un modo di utilizzare il potere rappresentativo per prendere decisioni che la gente avrebbe voluto prendere in autonomia, affermando il sacrosanto diritto di addurre le proprie ragioni. Ragioni che non sempre coincidono con quelle del politico di turno chiamato a rappresentarci. Per cui, è indiscutibile il significato politico che quel referendum (come questo) hanno avuto. In cui il termine “politico”, però, è inteso come volontà di riaffermare una volontà popolare e non come “arma politica” da scagliare contro il nemico per costringerlo ad arrendersi agli occhi di un’opinione pubblica che si crede sia passata dall’altra parte della barricata (con “noi”, lontano da “voi”). Stavolta non c’è di mezzo il solito “balletto della politica”. Sono in gioco temi più grandi e più gravi che, spero, siano il segno di cambiamenti più profondi e radicali. La gente vuole spazzare via un intero sistema. Anche io ho fatto quanto ho potuto anche con la volontà di lanciare un preciso segnale che andasse al di là dell’espressione di un voto (il cosiddetto “quinto quesito” che, tuttavia, non è rivolto solo al governo in carica, ma, a tutto un universo politico). D’altra parte, ad ognuno tocca essere onesto con sé stesso, fino in fondo. In un momento come questo, poi, in cui si ha davvero poco da perdere, si diventa tutti più trasparenti, più sfacciati. Per cui, al di là di dietrologie e letture statistiche lasciano il tempo che trovano, il segnale mi pare essere ormai inequivocabile.
La cosa che temo davvero è che, a questo punto, la grandezza di questo risultato (politico, civile, popolare) rischi di esser spazzata via e minimizzata da quella terribile macchina dell’offuscamento e della normalizzazione di tutto e tutti che tiene dentro dai giornalisti meno obiettivi e prezzolati a praticamente tutti gli appartenenti all’attuale classe politica i quali, per sopravvivere, non hanno altra strategia da adottare se non quella che consente loro di assorbire, remixare il tutto con fatti e fatterelli laterali, addizionare con dichiarazioni pubbliche timorate e diplomatiche (prima che cambi il vento c’è sempre un immobilità nell’aria che nessuno ha il coraggio di violare!) normalizzare a suon dell’impudente e spregiudicato “costi quel che costi” (che si è rivelato esser piuttosto una profezia) e andar avanti come se non fosse accaduto nulla. Indifferenti. Da oggi credo che questo non sarà più possibile.

Consapevolezze.....(Parte prima)

A pensarci bene, in quest’ultimo periodo della mia vita ho rischiato seriamente di ri(n)chiudermi nel più profondo dei tunnel della tristezza e della frustrazione personale. Tunnel che, tra l’altro, mi ha ospitato fino a non molto tempo fa. L’episodio, in realtà, è una costellazione di avvenimenti che mi hanno fatto dubitare seriamente delle mie potenzialità relazionali. Da una parte, la scarsezza di amici e di momenti di interazione profonda, autentica. Dopo la partenza di quelle poche, grandi persone che mi hanno riempito la vita e il cuore di emozioni, mi sono sentito veramente solo in questo pure piccolo paesino. Non saranno mai abbastanza le parole spese per denunciare come sia difficile instaurare relazioni profonde, amicizie fondate su una piena ed onesta condivisione in questa cittadella universitaria che ti sembra darti tutto, ma, che in realtà ti accontenta solo in minima parte. Dopo tanto tempo l’ho capito e la scoperta ha avuto da subito il sapore della condanna. Condanna a dover ripartire ogni volta da zero, come fossi un bambino contro il muro che aspetta di essere scelto per la partitella di calcetto sotto casa. Aspetti e sei attraversato continuamente da due pulsioni opposte. Da una parte, vorresti aspettare che qualcuno, ancora venga a sceglierti. Allora, fai affidamento sulla tua auto-stima, ti riempi la testa di tutte le cose belle e ammirevoli che hai fatto. Ti dici “con tutto quello che so e posso fare e dare vuoi che nessuno si (ri)avvicini a me?proprio a me?”. Dall’altra, quando smetti i panni del testardo orgoglioso e vanaglorioso ti scopri immediatamente debole, fragile, incompleto. E da lì parti alla ricerca immediata (e che ha il sapore della disperazione) di facce amiche e, più spesso, finisci per trovare solo delle persone travestite (anche male) da fratelli, compagni di bevute, conoscenti o interessati. Da lì non puoi non sbattere contro di nuovo contro tutta una serie di amare consapevolezze (stavolta più dura di prima). Tra cui: 1) è possibile che tu abbia perso e/o che tu non abbia mai avuto grandissime doti relazionali (d’altronde gli altri, che non perdono mai tempo quando si tratta di descriverti, raramente ti dipingono come una persona socievole); 2) tanto tempo passato sempre con le stesse persone ti ha certamente fatto perdere quel poco che sapevi fare quando si trattava di stringere amicizie. Sai, tutta quella roba su ciò che puoi dire all’inizio di una conoscenza, il tatto, la diplomazia. Sei diventato una specie di treno senza freni e fai veramente una gran fatica a fare un passo indietro rispetto a questo processo di abbrutimento (qualcuno oserà spacciartela per maturità. Non credergli mai!); 3) la solita pippa trita e ritrita relativa al luogo, alle amicizie, ai gruppi chiusi, alla freddezza delle persone che sai benissimo quanto valgano solo come semplici alibi.


Qualche tempo fa credevo di essermi imbattuto in una persona che pensavo avrebbe potuto migliorare la mia vita. Sai, quelle persone che ti fanno sentire di nuovo importanti. Che ti cercano, fanno domande interessate e relative alla tua vita. E vedi nei loro occhi e senti nella loro voce la voglia di entrare in contatto con un po’ del tuo mondo. Avverti a pelle la chiara sensazione che qualcosa sta cambiando nel tuo corpo, nel tuo umore. E mi iniziavo a sentire più leggero, riuscivo a rivedere tutti i colori. Dentro e fuori di me. Insomma, credevo di aver trovato dopo tanto tempo (e svariati errori!) quella persona a cui avrei potuto, per l’ennesima volta, affidare con leggerezza e una grande emozione la mia testa, i miei pensieri quotidiani. Ed una parte, non so quanto o quando, anche del mio cuore. Pensavo che fosse la volta giusta. Pensavo fosse quella giusta. E, invece, la mia voglia di conoscere, il mio desiderio oramai libero di entrare in contatto mi ha giocato un brutto scherzo. Schiavo della necessità di altro, del bisogno di qualcuna che ridesse vivacità alla mia vita ho iniziato a viaggiare dentro un mondo parallelo. Un mondo in cui lei era travestita da persona giusta e io da stupido con gli occhi a cuoricino che aveva preso una brutta cotta. Quella passione era già diventata ansia da prestazione, poi, padrona dei miei pensieri. E con quel cervello e quegli occhi annebbiati leggevo tutto quello che avevo attorno a me. Compreso lei e le sue parole, i suoi discorsi, i suoi messaggi. E' incredibile come solo due persone possano essere non solo così estremamente lontani ma avere al loro interno tutto un modo assolutamente personale di interpretare e fare tutto. Una consapevolezza questa che facilmente potrebbe sfociare in un relativismo anarchico devastante. I bisogni, le aspettative, i momenti di vita in ognuno di noi possono essere, così, il volano per la costruzione di veri e propri mondi separati. Mondi che, credo raramente, siano capaci d'incontrarsi. I nostri, stavolta, credo si siano appena sfiorati. Ma quel rapido incontro l’ho vissuto in modo talmente tanto intenso da sottovalutare anche l’importanza del dato reale, empirico. Fatti. Forse perché se avessi guardato sin da subito la realtà (quella vera!) avrei capito che la risposta a tutti i miei dubbi (le mie sofferenze, l’incapacità di darmi delle motivazioni sensate) era lì, dietro l’angolo, ad aspettarmi. Cruda, indesiderata e senza peli sulla lingua. Come quasi tutte le cose che affiorano dalla (mia) Vita vissuta.

L'unità come la ricordo io...

Ancora oggi, dopo tanti anni, quando sento l’espressione “unità d’Italia” la prima cosa che mi viene in mente è una bella lezione, parlo dei tempi del liceo, su tutta la fase pre-unitaria, sull’egemonia sabauda, sul grande statista Cavour. Ricordo delle prime leggi, dei governi prefettizi nel sud Italia. Ricordo della necessità di sviluppare, almeno in teoria, un impianto legislativo e di governo in grado di tenere assieme realtà che, fino a quel momento, erano considerabili come dei veri e propri mondi a sé stanti. Non era, com’è ovvio, solo una questione di dialetti. C’erano diversità antropologiche, culturali, c’erano problematiche e uomini completamente differenti. E, in modo particolare, ricordo benissimo lo strano effetto che mi faceva sentire e scorrere pagine e pagine di una storia in cui erano perfettamente distinguibili una testa ed una pancia del paese. La prima, grosso modo coincidente con il Piemonte e le regioni ricche del nord Italia, alla testa del processo di unificazione, grandi “esportatori di democrazia” e di civiltà (giusto per restare coi piedi nell’attualità) e, dall’altra parte, una pancia che, in qualche modo, si era ritrovata a subire questo processo politico che, almeno dal mio punto di vista, sembrava avere ben poco di democratico e/o di civilizzatore. Il problema del brigantaggio mi pareva essere una sorta di auto-narrazione del nemico proveniente dal Sud con cui si cercava di circoscrivere un problema per, poi, tentare di annullarlo, azzerarlo (un po’ come hanno fatto gli americani con Bin Laden. Problema che, di fatti, sembrano essere lontani dall’aver risolto). Il brigantaggio, l’antesignano della mafia dei signorotti/proprietari terrieri rappresentava la forma più avanzata di auto-governo di quelle terre. Non so se fosse giusta o ingiusta. Ma mi resta chiara, nella mente, la sensazione che a quel cattivo governo se ne fosse semplicemente sostituito un altro. Certo strutturato in modo più complesso, frutto del lavoro di statisti e giuslavoristi. Dei raffinati lumi del Nord. Vanto d’Italia. Insomma, venne spazzata immediatamente via dalla mia mente l’idea per cui il processo di unificazione potesse permettere a tutti di partire dagli stessi blocchi. Azzerando le differenze negative ed avviando all’interno del paese appena unificato un vero e proprio processo di civilizzazione. Almeno, dopo quella spiegazione e le letture, non ne ero più sicuro. Per niente. Anzi, sarà stata l’influenza degli anni dell’avvicinamento alla politica studentesca, ma, mi sentivo fortemente convinto dell’idea che, alla base di questa millantata esportazione di civiltà e sane virtù, vi fosse stato solo un clamoroso atto di prepotenza subito taciuto da coloro che ne erano stati testimoni, narratori o autori. Un comportamento che, nei fatti, si è dimostrato miope e incapace di comprendere e rispettare nel profondo tutte quelle sane e fruttuose diversità. La “questione meridionale”, che suona quasi come se l’esistenza stessa di una parte del nostro paese rappresentasse un problema o una fonte di allarme sociale, mi sembra l’apoteosi di questa che è già una incredibile esaltazione negativa di differenze. Una esaltazione che ha proprio il sapore e la forma di una discriminazione che, purtroppo, è stata immediatamente declinata nell’ennesimo punto programmatico nell’agenda di politici di destra come di sinistra, di ieri come di oggi. Ecco, un’altra, chiarissima riflessione che feci all’ascolto delle parole della prof, era che tutto quello mi sembrava incredibilmente attuale. La demonizzazione di Roma, i fondi per il sostegno alla popolazioni disagiate sotto la capitale, la lotta al brigantaggio (che ha accresciuto le qualità del suo nemico, invece di combatterle). E’ tutto clamorosamente fermo a quando ci è stata imposta l’unione del paese con regole scritte dall’esterno e con la millantata promessa di una unione conveniente per le sorti e il progresso del Paese. Se a tutto ciò si unisce, poi, il fatto che il senso “medio” della democrazia e delle istituzioni (che, nella pratica dei lavori della costituente, si è concretizzata con qualche ritardo rispetto alle più antiche e forse-solide democrazie dell’antico regime) vacilla fortemente, allora, sembra confermata l’ipotesi per cui festeggiare l’unificazione per un paese che ancora sta cercando (o forse no) la strada per appianare conflitti culturali ormai radicati suona un pelo come una contraddizione.
Partire magari da giusti ed autentici racconti di Storia potrebbe essere una soluzione per incominciare a guardare in faccia problemi e disagi che, proprio con quel barbaro processo di unificazione, si è cercato di oscurare 150 anni fa. Perché nessun processo d’unione è immune da conflitti, anche aspri. Perché in ogni paese democratico la dialettica, il contraddittorio, la smentita, la confutazione rappresentano valori. Non ingombranti paletti. Le vicende del Nord-Africa ne sono la riprova.

Davide, il paese reale, la filosofia del "not in my backyard"

Saranno state le 23 circa, sto per riprendere la macchina a piazza Mercatale per rientrare a casa dopo una cena con amici, a Urbino, quando sento a un certo punto ticchettarmi al finestrino. E mi ritrovo immediatamente di fianco un ragazzo di carnagione scura che si sbraccia come per salutarmi, come se mi conoscesse da una vita. Dopo qualche attimo di titubanza, apro la portiera e il ragazzo, con un italiano stentato, mi chiede di essere accompagnato a Fermignano, un paesino ad una decina di chilometri da Urbino. “No, scusami, ma io abito da un’altra parte”; abbozzo qualche scusa, in realtà mi prende un po’ di paura. Gli guardo le mani, cerco di anticipare con gli occhi tutti i suoi gesti più piccoli. Non riesco proprio a dire di no a un ragazzo in evidente difficoltà. Lui, come per prendere in contropiede la mia necessità (non più tanto nascosta!) di rassicurazione, esibisce subito i suoi documenti appena rinnovati. Come se si trovasse ad un posto di blocco, un check point. Forse conosce bene la diffidenza delle persone di questo posto come del suo paese o, forse, più semplicemente, si rende conto che il panico e l’ansia di rientrare a casa dopo una giornata passa alla Questura di Roma lo hanno indotto a compiere un gesto troppo avventato senza averne il diritto. Insomma. Dopo qualche esitazione, gli dico di montare in macchina e che lo avrei portato io a casa. A quell’ora autobus zero. Già mi immagino, qualche minuto prima del mio arrivo alla macchina, come lo avrà trattato il tipo dei bus. D’altronde li vedo tutti i giorni, da sei anni oramai. “Scusi, per caso ancora autobus chi va a Fermignano?” - gli avrà detto Davide o, almeno questo è il nome con cui mi si è presentato – “No, a quest’ora niente (silenzio)”…..”Grasie”…Viene dalla Nigeria, 32 anni credo di aver capito. Muratore impiegato in una piccola azienda di Fermignano. Ma come ci sarà arrivato a Fermignano uno che viene dalla Nigeria?...ho perso l’occasione di chiederglielo. A quel punto, per rompere il silenzio e l’evidente imbarazzo inizio a fargli qualche domanda in inglese sulla sua abitazione, sulla vita nel piccolo paesino, sulla diffidenza della gente del posto. Ma lui, forse perché offuscato dalla gioia per aver trovato un modo di rincasare o semplicemente perché pensava che fossi uno del posto, mi descrive una vita piuttosto senza, senza grandi problemi, a parte i soldi e il lavoro. Gli spiego che il sindaco di Fermignano fa parte di un partito italiano che non ha posizioni molto tenere nei confronti degli immigrati. A quest’affermazione, il ragazzo sembra cadere dalle nuvole. E, in fin dei conti, la cosa sembra anche interessargli poco e lo capisco. Una volta riuscito a sistemarti, a metterti in regola, ad avere un lavoro onesto e a fare anche solo un piccolissimo passo per uscire da quello stato di povertà assoluta che ha tagliato come un’accetta tutta la tua esistenza fino a quel momento. Posso capire perfettamente come, a conti fatti, Davide se ne fotta altamente di essere amministrato da un sindaco dei Verdi, della Lega o di qualsivoglia altro partito politico. Questo è giochetto tutto nostro. Anzi, di coloro che, tutto sommato, riescono ad arrivare fino alla quarta settimana e chiedono a voce alta un posto riservato nei salotti. Davide è, insieme a molti altri milioni di persone, una parte integrante del nostro paese. O meglio, del paese reale. Che cerca lavoro, giustizia, aiuto e, più di ogni altra cosa, una vita di dignità e di diritto. Il ragazzo mi racconta che usa una vecchia bici per andare a lavorare. Mi dice che prende circa 50 euro al giorno anche se, tra tasse e ritenute, guadagna molto poco e sembra qusi pentirsi di essersi messo in regola. Forse, col nero, avrebbe guadagnato di più. Davide lavora, in media, tredici ore al giorno ma non tutti i giorni. Quando c’è bisogno. Poi le spese, le bollette, il viaggio periodico a Roma per rinnovare la regolarizzazione della sua presenza in questo paese. Questo incontro, fortuito per entrambi, mi ha fatto pensare ad almeno due cose. La prima riguarda la fatica enorme che avrà fatto una persona sradicata dal proprio paese e costretta all’emigrazione per sopravvivere. Ingabbiata in un lavoro che ti permette di sopravvivere, ma, non di essere felice. Di vivacchiare, ma, non certo di tornare spesso nel tuo paese d’origine. Un po’ come il classico emigrante che, da sud a nord, va in cerca di lavoro ma perde completamente le base che hanno costruito la sua persona, la sua vita, le sue emozioni. Tutto per cercare lavoro. Tutto per finirne, poi, con l’essere schiavi. In Davide, come in molti altri immigrati, ho rivisto quel velo di tristezza che nemmeno un isolato gesto di gratitudine può essere capace di cancellare. Quella tristezza sembra essersi insediata fin nel profondo della sua povera anima. D’altra parte, il gesto isolato è inevitabilmente letto come una miope espressione di pietà nei suoi confronti. Ed è questa, almeno per me, la miccia di ogni scontro, di ogni possibile incomprensione. Sta tutto nel nostro modo di fare che oscilla continuamente e in modo schizofrenico tra una accettazione sbandierata in piazza (l’uguaglianza per tutti, a tutti i costi) ed una ben più intima repulsione. E siamo ancora fermi a questo step. Parliamo molto di integrazione, della necessità di accettare una presenza straniera che oramai si sta facendo massiccia e, in pari tempo, significativa dal punto di vista occupazionale, della produzione di ricchezza e consumo. D’altra, invece, quando si tratta di avere a che fare direttamente con problemi legati alla convivenza, alla multiculturalità tiriamo fuori tutte le nostre psicosi sociopatiche, tutte le ansie di un popolo insicuro e profondamente diviso. Regionale e biologicamente provinciale. La sproporzione tra le parole dette e i gesti realizzati diventa, in questo modo, scandalosamente preoccupante. Per cui, non mi vergogno nel dire che attraverso quel passaggio dato e non negato con leggerezza ho cercato di naturalizzare un gesto che, in un altro momento della mia vita, avrei negato con altrettanta naturalezza. Qui pago lo scotto dell’ipocrisia naturale (e tutta italiana!) di cui non faccio fatica ad ammettere di esser vittima. Ma certamente non sarei andato a letto così soddisfatto come ora. Mi sento piuttosto orgoglioso. Forse è triste, forse è stupido. Forse è semplicemente la chiusura perfetta del cerchio dell’ipocrisia di chi lancia il sasso poi nasconde la mano dietro un piccolo gesto come quello che ho raccontato. Forse, tutto questo non dovrebbe nemmeno essere argomento per un post. Tuttavia, ne ho avvertito la necessità. Non tanto per “i lettori” quanto per me…E il cerchio si chiuse due volte…

IL TEMPO MI FA MALE ALLE OSSA E AL CUORE....

Sto posto (che, detto per inciso, sarebbe Urbino) non solo quando nevica, ti mette un’ansia devastante. Oggi mi sono praticamente occupato solo della casa, dell’ordine, dell’auto. Il vicino mi ha letteralmente tirato fuori da questo muro di ghiaccio formatosi durante la notte e cementatosi con la neve del mattino. L’ordine. Ma quanto tempo della mia vita avrò già speso per fare ordine tra le cose che ho, che ho avuto, che vorrei. Tanto, tantissimo tempo rubato all’invenzione di qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo per me, nella mia vita. Allora ti rispondi che è tutta una questione di equilibrio. Non npe sei totalmente certo, quindi chiedi consiglio ad una persona amica che ti risponde che è tutta una fottuta questione di equilibrio. Ma, poi, penso. Se è tutta una questione di equilibrio tra elementi, variabili, questo approccio alla soluzione del problema non è, allo stesso tempo, l’espressione diversamente articolata della sua stessa causa. Per intenderci, il cazzo di equilibrio tra le cose non è, alla fine ma poi non tanto, solo un altro modo di programma le cose, archiviarle. Metterle di nuovo in fila, ma con una nuova etichetta?...Siamo al punto di partenza. Come si sconfigge la tendenza all’ordine nella testa di un ragazzo datato un quarto di secolo, proveniente dal sud e, per di più, da una famiglia che col suo lento disgregarsi non ha fatto altro che insegnargli a tenere tutte le cose unite. Le parti del corpo, con l’alimentazione. Le parti del cervello, senza fare uso di alcool o droghe. Le parti della mente con lo studio assennato e l’osservazione permanente di modelli virtuosi di comportamento. E così anche con tutte le parti che compongono la mia vita. Ovvero, i pezzi, le propaggini, i prolungamenti della mia insicurezza, della mia debolezza che si nasconde dietro un dito. Vestiti più o meno puliti e ordinasti per colore (non sono ancora arrivato a graduarli sulle sfumature di colore, spero di non arrivarci mai). La macchinina parcheggiata sempre in vista e ben pulita. Pulsioni maniacali alla pulizia di cui mi pento immediatamente come se fossi un ladro. Pulire nel cuore della notte. Fare tardi a un appuntamento (d’amicizia, d’amore, di lavoro) perché ci si è soffermati a pulire la tazza del cesso che mostrava puntini neri sul bordo e opacità al centro mai notate fino alla pisciatine notturna della giorno prima. Pulsioni irrefrenabili di cui riesco anche a ricostruire l’origine, di cui, alla fine, riesco a fornire anche un identikit completo. Con tanto di complessi edipici, traumi infantili, mancanze d’affetto, ossessioni e pulsioni. E ci mancherebbe altro. Sono o non sono un tipo fottutamente ordinato. Peggio di un marine a cui abbiamo insegnato a lucidarsi ogni mattina persino il buco del culo a comando.

Poi pensavo anche a sto posto e l’amore. Non ho quasi più niente da scoprire sulle possibilità di innamoramento che ti concede un posto del genere. Essì. Perché da un po’ di tempo a questa parte la sto buttando sul discorso del fattore ambientale. Silvio vive dentro di me e me ne sto accorgendo solo ora. Ad ogni modo, cerco da un pò ti tempo di rifugiarmi dando la colpa o a quello che l’ambiente mi propone o a quello che vorrei ma che questo maledettissimo ambiente non è in grado di darmi. Se fossero vere queste condizioni dovrei ammettere: che io non sono fatto per determinati tipi di posti per cui, dopo un determinato periodo di sopravvivenza, sono costretto a darmela a gambe elevate. O, in alternativa, che o dei bisogni amorosi, delle necessità sentimentali che questo posto davvero non sembra essere in grado di esaudire. Sulla prima posso anche essere d’accordo, con un buon grado di serenità. Se, invece, fosse vera la seconda dovrei preoccuparmi. Se, poi, la prima e la seconda ipotesi fossero in qualche modo collegate allora si che dovrei ritenermi con un piede nella merda visto il tempo che mi resta da vivere quì e la mia non più giovine età. Risultato? Mi sento un bambino con scarsissime capacità relazionali, quasi sempre insoddisfatto. Alla ricerca di nuove conoscenze ma, nei fatti, poco aperto al confronto con esperienze davvero nuove. Insomma. Lascio passare le giornate, le settimane coprendomi dietro una routine quotidiana che mi affanna ma non mi spegne. Mi coinvolge ma non mi seduce mai del tutto. Così come per le amicizie che “questo posto” mi sta regalando. Contenitori senza peso, barattoli sparsi senza etichetta ma con una data di scadenza enorme, scritta a caratteri cubitali e bel leggibile anche per un miope di “vecchia data” (appunto) come me. E, intanto, le persone che hanno condito davvero la mia vita insaporendola sono via, fuori da qui. In un altro mondo. Magari staranno fronteggiando scelte difficili, grandi delusioni, nuovi sentimenti, emozioni inaspettate. A volte mi immagino di essere al loro fianco. Sai, un po’ come quando sei il primo che abbraccia l’amico che hanno appena proclamato col massimo dei voti In quell’abbraccio ubriacante e vigoroso ci si scambiano energie, c’è vigore. C’è una enorme voglia di vivere. Ma c’è anche passione, affetto, debito reciproco. Perché, prima di essere avvolto da quell’abbraccio, sei stato (anche se in una frazione di secondo) scelto, selezionato in quella moltitudine di persone accorse per celebrarti. Ecco, io è da un po’ che non mi sento più l’oggetto di quella bellissima scelta. Non mi sento più importante per nessuno che sia davvero importante per me. E la cosa, oltre a non piacermi, mi fa stare davvero male…

IL TEMPO MI FA MALE ALLE OSSA E AL CUORE....

Sto posto (che, detto per inciso, sarebbe Urbino) non solo quando nevica, ti mette un’ansia devastante. Oggi mi sono praticamente occupato solo della casa, dell’ordine, dell’auto. Il vicino mi ha letteralmente tirato fuori da questo muro di ghiaccio formatosi durante la notte e cementatosi con la neve del mattino. L’ordine. Ma quanto tempo della mia vita avrò già speso per fare ordine tra le cose che ho, che ho avuto, che vorrei. Tanto, tantissimo tempo rubato all’invenzione di qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo per me, nella mia vita. Allora ti rispondi che è tutta una questione di equilibrio. Non npe sei totalmente certo, quindi chiedi consiglio ad una persona amica che ti risponde che è tutta una fottuta questione di equilibrio. Ma, poi, penso. Se è tutta una questione di equilibrio tra elementi, variabili, questo approccio alla soluzione del problema non è, allo stesso tempo, l’espressione diversamente articolata della sua stessa causa. Per intenderci, il cazzo di equilibrio tra le cose non è, alla fine ma poi non tanto, solo un altro modo di programma le cose, archiviarle. Metterle di nuovo in fila, ma con una nuova etichetta?...Siamo al punto di partenza. Come si sconfigge la tendenza all’ordine nella testa di un ragazzo datato un quarto di secolo, proveniente dal sud e, per di più, da una famiglia che col suo lento disgregarsi non ha fatto altro che insegnargli a tenere tutte le cose unite. Le parti del corpo, con l’alimentazione. Le parti del cervello, senza fare uso di alcool o droghe. Le parti della mente con lo studio assennato e l’osservazione permanente di modelli virtuosi di comportamento. E così anche con tutte le parti che compongono la mia vita. Ovvero, i pezzi, le propaggini, i prolungamenti della mia insicurezza, della mia debolezza che si nasconde dietro un dito. Vestiti più o meno puliti e ordinasti per colore (non sono ancora arrivato a graduarli sulle sfumature di colore, spero di non arrivarci mai). La macchinina parcheggiata sempre in vista e ben pulita. Pulsioni maniacali alla pulizia di cui mi pento immediatamente come se fossi un ladro. Pulire nel cuore della notte. Fare tardi a un appuntamento (d’amicizia, d’amore, di lavoro) perché ci si è soffermati a pulire la tazza del cesso che mostrava puntini neri sul bordo e opacità al centro mai notate fino alla pisciatine notturna della giorno prima. Pulsioni irrefrenabili di cui riesco anche a ricostruire l’origine, di cui, alla fine, riesco a fornire anche un identikit completo. Con tanto di complessi edipici, traumi infantili, mancanze d’affetto, ossessioni e pulsioni. E ci mancherebbe altro. Sono o non sono un tipo fottutamente ordinato. Peggio di un marine a cui abbiamo insegnato a lucidarsi ogni mattina persino il buco del culo a comando.

Poi pensavo anche a sto posto e l’amore. Non ho quasi più niente da scoprire sulle possibilità di innamoramento che ti concede un posto del genere. Essì. Perché da un po’ di tempo a questa parte la sto buttando sul discorso del fattore ambientale. Silvio vive dentro di me e me ne sto accorgendo solo ora. Ad ogni modo, cerco da un pò ti tempo di rifugiarmi dando la colpa o a quello che l’ambiente mi propone o a quello che vorrei ma che questo maledettissimo ambiente non è in grado di darmi. Se fossero vere queste condizioni dovrei ammettere: che io non sono fatto per determinati tipi di posti per cui, dopo un determinato periodo di sopravvivenza, sono costretto a darmela a gambe elevate. O, in alternativa, che o dei bisogni amorosi, delle necessità sentimentali che questo posto davvero non sembra essere in grado di esaudire. Sulla prima posso anche essere d’accordo, con un buon grado di serenità. Se, invece, fosse vera la seconda dovrei preoccuparmi. Se, poi, la prima e la seconda ipotesi fossero in qualche modo collegate allora si che dovrei ritenermi con un piede nella merda visto il tempo che mi resta da vivere quì e la mia non più giovine età. Risultato? Mi sento un bambino con scarsissime capacità relazionali, quasi sempre insoddisfatto. Alla ricerca di nuove conoscenze ma, nei fatti, poco aperto al confronto con esperienze davvero nuove. Insomma. Lascio passare le giornate, le settimane coprendomi dietro una routine quotidiana che mi affanna ma non mi spegne. Mi coinvolge ma non mi seduce mai del tutto. Così come per le amicizie che “questo posto” mi sta regalando. Contenitori senza peso, barattoli sparsi senza etichetta ma con una data di scadenza enorme, scritta a caratteri cubitali e bel leggibile anche per un miope di “vecchia data” (appunto) come me. E, intanto, le persone che hanno condito davvero la mia vita insaporendola sono via, fuori da qui. In un altro mondo. Magari staranno fronteggiando scelte difficili, grandi delusioni, nuovi sentimenti, emozioni inaspettate. A volte mi immagino di essere al loro fianco. Sai, un po’ come quando sei il primo che abbraccia l’amico che hanno appena proclamato col massimo dei voti In quell’abbraccio ubriacante e vigoroso ci si scambiano energie, c’è vigore. C’è una enorme voglia di vivere. Ma c’è anche passione, affetto, debito reciproco. Perché, prima di essere avvolto da quell’abbraccio, sei stato (anche se in una frazione di secondo) scelto, selezionato in quella moltitudine di persone accorse per celebrarti. Ecco, io è da un po’ che non mi sento più l’oggetto di quella bellissima scelta. Non mi sento più importante per nessuno che sia davvero importante per me. E la cosa, oltre a non piacermi, mi fa stare davvero male…