Richiesta ufficiale di pagamento borse di studio per tutti i dottorandi dal secondo anno in poi

All’attenzione della dott.ssa Simona Pigrucci
Dirigente Servizio Front Office



Io sottoscritto Mario Orefice, dottorando di ricerca ammesso al secondo anno del XXV ciclo di dottorato di ricerca in “Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo”, facendo da semplice cassa di risonanza per tutti i miei colleghi degli altri dipartimenti che, per questioni personali, familiari e/o di semplice sopravvivenza, dipendono in maniera sostanziale dal pagamento (prescritto ed impostato secondo cadenza mensile) della borsa di studio assegnataci a seguito della definizione (e successiva pubblicazione) di una graduatoria ufficiale di merito e spettanteci di diritto per tutto il periodo di svolgimento del dottorato. Chiedo, innanzitutto, che si valuti la decisione di accorpare (con l’ipotesi malsana di rimandare all’inizio dell’anno prossimo) i pagamenti previsti per il mese di novembre e/o dicembre come la precondizione per la nascita di uno stato di vera e propria emergenza per tutti quei colleghi la cui sopravvivenza dipende dal pagamento cadenzato della borsa di studio. Borsa che deve smettere di essere considerata come opzionale e, come tale, sacrificabile e/o elargibile a discrezione di chi è preposto all’espletamento di tali pagamenti. Per molti di noi la borsa di studio è, a tutti gli effetti, equiparabile ad uno stipendio. Per cui anche solo l’idea di effettuarne un pagamento variabile e discontinuo e/o sulla base di esigenze burocratiche/fiscali si configura come un’autentica aberrazione. Che, come tale, ci impedirebbe di svolgere anche le normali attività di studio, didattica e ricerca. D’altra parte, nel “Regolamento dei corsi di dottorato di ricerca presso L’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo (ai sensi dell’art. 4 della legge 3 luglio 1998, n.210)” non vi è, nello specifico, alcun riferimento alla presenza di una tempistica che regoli sia il passaggio dei candidati dal primo agli anni successivi sia, d’altra parte, la trasmissione all’ufficio amministrativo (e, dunque, alla ragioneria d’ateneo per la predisposizione dei pagamenti) dell’avvenuta ammissione/non ammissione dei dottorandi espressa dal collegio docenti dei Dipartimenti cui i vari dottorandi fanno abitualmente riferimento. Le uniche scadenze esplicitate si riferiscono alla valutazione dei dottorandi prossimi alla conclusione del proprio ciclo, ovvero, alla discussione della tesi di dottorato (si veda l’art. 8 del presente regolamento ai commi 3 e 4). Dato quanto detto fin qui, si richiede nell’immediato:
- una regolarizzazione dei pagamenti delle borse di studio per tutti i dottorandi che, come me, stanno affrontando il passaggio dal primo al secondo anno. Una regolarizzazione che tenga conto sia dei rischi e dei disagi economici ed esistenziali conseguenti il mancato pagamento per tutti quei dottorandi che hanno potuto contare sin dall’inizio su di un pagamento a cadenza mensile e, d’altra parte, della necessità (non rappresentante certo una questione di sopravvivenza, ma, per questo non meno degna di immediate azioni di riforma!) di modificare un regolamento che, non solo riguardo il nodo oggetto della presente comunicazione, sembra mostrare il fianco a ben più di semplici ed isolate obiezioni.



Cordiali saluti,


Mario Orefice

Ricognizione della nottata televisiva e qualche consapevolezza datati 17/10/2010

Oggi mi sono svegliato con ancora in testa le parole e le facce dei programmi televisivi della sera prima. Mi è passato per un attimo davanti agli occhi la faccia di Sallusti (che, per associazione simbolica, mi ricorda un pò quella di Gasparri, anche lui presente!) a Ballarò che cerca, con una caparbietà ammirevole, di difendere in tutti i modi il suo editore. Lo ricordo piegato tra le spalle, curvo, ma, estremamente pungente nei commenti ai temi del dibattito. Abbiamo accumulato ormai una conoscenza profonda di questa classe di buffoni di corte che fanno di tutto per restare schiavi-dipendenti di un padrone. C’è chi il potere soffocante lo respinge. Chi, al contrario, quell’aria la respira a pieni polmoni. E credendo di trarne degli effetti venefici, salutari. Ricordo l’immagine di una sinistra (sempre a Ballarò) stanca, confusa ed un po’ urlatrice. Non voglio pensare che quel ritorno alla “giusta alternanza” tra le parti, che ci auspica negli ultimi tempi, si concretizzi solo sul piano dello stile politico. E’ certamente vero che la stanchezza e l’estenuazione portano con sé reazioni e comportamento assimilabili a quelli di una certa parte politica. Ma la sinistra non deve mai dimenticarsi che le frasi urlate, l’innalzamento indiscriminato dei toni per azzittire, l’illustrazione di contro-argomentazioni che contengono al loro interno sempre, comunque un attacco diretto alla vita personale degli avversari-bersaglio. Ecco, tutte queste cose lasciamo che tramontino con i loro principali esponenti. La ri-strutturazione di un principio di alternanza tra le parti necessità, come sua imprescindibile pre-condizione, di un accordo di tipo culturale (linguistico, semantico e, in parte, simbolico) tra i contendenti politici. Procedendo nei ricordi della serata televisiva, mi imbatto (mio malgrado) nella puntata di Matrix intitolata “mondo porno”. La puntata ruotava, sostanzialmente, intorno ad un caso giudiziario che, nei giorni scorsi, aveva coinvolto direttamente una famosa pornodiva. La quale ha dovuto scontare anche una pena di alcuni giorni di carcere. E’ stato proprio lì che ho capito che tutta la macchinazione finalizzata alla costruzione di programmi che ci trasportino letteralmente fuori dalla realtà è, in buona sostanza, un enorme sistema razionale che cura fin nei minimi dettagli il confezionamento di programmucci ad hoc per attirare l’attenzione di un pubblico lobotomizzato, disattivato nelle funzioni biologiche e cerebrali. In quei continui riferimenti, diretti ed indiretti, alla sessualità. Alle capacità prestazionali del maschio, alle proprietà seduttive della donna moderna post-capitalista. Alla necessità o meno di impartire lezioni di sesso agli adolescenti, nei licei. Senza rendersi conto che quel programma rappresenta l’ennesimo passo in avanti in quell’incessante processo di devastazione dei corpi e delle coscienze, condotto soprattutto ai danni degli adolescenti, dei più giovani. Razionalizzare in una discussione televisiva un tema così delicato come la scoperta del proprio corpo, la costruzione di bisogni relazionali ed affettivi è un po’ come distruggere tutto questo, annientarlo, svalutarlo. A fare da co-autori di questa immensa devastazione psichica c’erano, tra i vari attori porno (forse, gli unici ancora vagamente innocenti rispetto a questa opera di demolizione pre-programmata), Sgarbi e lo psicologo nazional-popolare di turno e l’autore di un libro, una sorta di “viaggio nel mondo del sesso” in cui, udite spettatori, lo scrittore rivela l’esistenza e la frequentazione diffusa di locali hard, privè e strip club in tutto il territorio nazionale. Incredibile. Raccapricciante, invece, la leggerezza con cui tutto questo è ancora ed ancora detto, o meglio, sbattuto in faccia al pubblico. Senza cura e rispetto non solo verso i più giovani (cui, con queste uscite di pessimo gusto, non si fa altro che sottrarre spazi di libertà, auto-determinazione ed imprevisto che connotano, da sempre, esperienze personalissime come l’approccio al sesso ed alle dinamiche relazionali, ecc…). Leggerezza, come è ovvio, anche nel non tenere nella ben che minima considerazione il fatto che il resto del paese sta andando da tutt’altra parte. E non voglio parlare della solita fra setta “dobbiamo interessarci alle cose della gente”, quella preferisco lasciarla agli esponenti del centro-sinistra. Parlo della necessità reale di una rivoluzione culturale che sia capace di cambiare, da subito, le condizioni materiali dell’esistenza di tutti. E, solo dopo, sarà in grado di implementare anche il cambiamento dei mezzi d’informazione. La crisi non è né nata dentro la televisione né, allo stesso modo, possiamo pensare che venga risolta da un mezzo. Che per quanto gestito, lottizzato, contrattato, abusato, resta pur sempre uno strumento di trasmissione. Sono pienamente d’accordo con una mia collega quando afferma che la politica è, in qualche modo, parte di un dominio culturale. La cultura (i comportamenti quotidiani, il rispetto delle regole di convivenza civile, le abitudini di vita e di consumo) rappresenta la premessa fondamentale per la costruzione ed il governo sano, giusto ed equilibrato delle istituzioni. Di questo paese come di tutti gli altri. Ad ogni modo, la serata si è conclusa con la più bella delle sorprese: una incredibile intervista di Serena Dandini all’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Oltre ad essere stato uno di quelli che ha combattuto la seconda guerra, a contribuire alla ricostruzione della democrazia di un paese devastato dalla guerra, a vivere una brillante carriera politica. Scopro, nel corso di un dialogo pacato e commovente con la conduttrice di “Parla con me”, che Ciampi è stato un insegnante. Ecco, quel dato mi mancava. E mi è servito non solo per capire meglio la persona (di cui pure ho avuto esperienza dato che ero alla fine dell’adolescenza nel corso del suo ultimo mandato), ma, per comprendere meglio il significato della sua condotta politica e, cosa non meno importante, delle sue parole. In modo particolare, mi ha colpito la lucidità con cui l’ex presidente istituiva una precisa connessione tra il possesso di cultura, la crescita personale e la costruzione di una solida coscienza politica (e di un senso delle istituzioni). “La scuola ai miei tempi- ricordo ancora le parole- non era un luogo in cui si apprendevano semplicemente nozioni. Quella scuola che ricordo io, fatta di dialogo e di confronto, era un posto in cui si cresceva come studenti, ma, soprattutto come persone”. A questo punto, sarebbe bello se questa missione educativa e (ri)formatrice (delle coscienze, delle relazioni, dei processi mentali) divenisse parte integrante dei massimi obiettivi di uno stato e di una società così martoriati.

Riflessioni libere sulla vicenda di Paola Caruso

Stavo pensando alla storia di Paola Caruso, la giornalista precaria del Corriere della Sera (redazione economia) che ormai da quattro giorni porta avanti uno sciopero della fame in segno di protesta per la sua condizione e, in particolar modo, dopo essersi vista “scavalcare” da un ragazzo più giovane di lei che, appena uscito da una scuola di giornalismo di Milano, è entrato al Corriere occupando un posto che Paola riteneva suo di diritto. Ho letto alcune cose sulla vicenda ed ho sviluppato una serie di idee sulla questione che vorrei condividere con voi.

- Ritenere, come ha affermato la stessa ragazza precaria (perché di una ragazza di quasi trent’anni si sta parlando) che dopo sette anni di gavetta era giunto il suo momento mi sembra un atto quanto meno presuntuoso. Confondere le rivendicazioni di una intera generazione di precari con il diritto ad occupare un posto liberato da un giornalista in pensione è, allo stesso modo, ingiusto, presuntuoso ed avventato;

- Avviare uno sciopero della fame, alimentando una forma di protesta certamente clamorosa non fa per niente bene all’immagine pubblica di questa massa di precari. Sempre rappresentati come meritevoli, intelligenti ed assolutamente disperati, pronti a tutto. Non mi sembra questo il modo di risolvere le cose, portandole nella dimensione più ortodossa, violenta ed estrema possibile. Evitiamo di renderci co-protagonisti di questo enorme processo di devastazione dei principi democratici su cui dovrebbe reggersi la società, così, come il mercato del lavoro che ne rappresenta una costola fondamentale. In fondo, non era proprio questo “esercito” di giovani e meno giovani disincanti e disillusi sul loro futuro che da sempre ha provato a battersi per un mondo diverso, migliore di quello attuale?;

- C’è una certa uniformità di pensiero ed azione all’interno di alcuni siti di social network che, in certi casi, alimentano un meccanismo di amplificazione ingiustificata delle notizie e dei fatti che vi trovano ospitalità. “Il popolo di Facebook” prima (terribile espressione), i blogger e Friendfeed dopo, hanno permesso all’ennesima precaria di questo mondo di guadagnare immediatamente in fama e notorietà. Perché? La ragazza sapeva e sa benissimo di ritrovare in queste piattaforme di socializzazione un “pubblico amico”, che vive spesso la sua condizione (magari in altri settori lavorativi) e, così, la pubblicizzazione di un gesto estremo si è imposto come il fatto principale degli ultimi quattro giorni. E lo è diventato con una rapidità ed una penetrazione on line che solo la solida “compattezza di classe (degli utenti di Sns)” avrebbe potuto garantirle. Per cui, quando P.C sostiene pubblicamente che il “popolo della rete” è con lei, parla di una classe di utenti interoconnessi a causa delle medesime condizioni di vita e, dunque, degli stessi sentimenti. Sentimenti che, in casi come questo, potrebbero prendere facilmente il sopravvento e portare un po’ tutti a solidarizzare del tutto con la ragazza (anche con gesti/toni/iniziative clamorose) senza considerare, ad esempio, che se Paola avesse ottenuto il suo posto nella redazione del Corriere della Sera, difficilmente avrebbe deciso di rinunciare al suo bel desk per unirsi e, magari, avviare una protesta nazionale in difesa dei diritti dei giovani lavoratori precari. Se lo avesse fatto, sarebbe stata degna di nota e notorietà:

- Se penso al modo in cui si comporta la classe dei blogger più noti, non posso non ravvisare il fatto che questi soggetti hanno oramai formato una solida casta borghesi di autori più o meno autorevoli. Per cui, per ottenere considerazione e spazio tra le loro pagine devi: essere oggetto di un fatto/avvenimento di cronaca davvero rilevante o, in alternativa, essere uno che scrive da anni ed anni e/o essere un loro amico. Per cui, anche qui, proviamo a rinunciare ai toni entusiastici così come a millantare la presenza di masse di cittadini liberi che scrivono, pensano, appoggiano. La “casta” dei blogger nel nostro paese, rappresenta una classe di potere capace di settare l’agenda dei temi rilevanti per la rete. E lo fa, né più né meno che come avviene con gli editori della vita off line. Per cui, mi domando: dove sono i grandi numeri che sostengono Paola?, ma, anche: dove sono finite la libertà di giudizio ed espressione che si ritenevano strutturalmente legate all’avvento della rete? Non è che ci siamo nutriti un po’ tutti (fino ad oggi) solo di una grossa illusione di massa?

- In fine, credo ci siano ben altri modi di risolvere una questione che, ad oggi, rappresenta la condizione di (non)vita di milioni e milioni di persone, anche più anziane e con più anni di precariato alle spalle di quanti ne abbia Paola. Se decidere di smettere di nutrirsi sembra, quanto meno alla ragazza, l’idea migliore per risolvere un problema congenito del mercato del lavoro, le questioni sono due: o la ragazza è così ingenua da credere che un gesto di disperazione possa risolvere le cose (se si batte per una classe di milioni di persone), o in alternativa, è così frustrata dall’idea di essere stata sorpassata da un collega (che, per quanto giovane, aveva ed ha tutto il diritto di essere assunto o sottoposto a una qualsiasi forma di assunzione contrattualizzata) che le ha soffiato il posto da ritenere il digiuno la forma migliore di farsi rispettare ed imporre all’attenzione “pubblica” il proprio caso:

- Poi ci si lamenta dei posti “riservati” alle persone solo sulla base di criteri di anzianità che sembrano valere ancora ed esclusivamente nel nostro paese. Che ci sia bisogno di aspettare che il collega più anziano vada in pensione per occuparne il posto rappresenta un meccanismo distorto, sbagliato. E mi sembra di capire che questa giovane precaria si batta più per la fluidificazione di un meccanismo distorto, ingiusto e sbagliato che per una autentica rivendicazione dei diritti di una classe senza futuro. Sarei quasi tentato di sostenere che questi gesti, queste persone, queste parole non fanno altro che rendere tutti noi (giovani precari) niente altro che tenera carne da macello per chi voglia comprarci, prometterci successo, illuderci di fare carriera. E se ciò non accade? Allora basta battere i piedi, salire sui tetti, pubblicare le foto della propria “pesata “ quotidiana per dimostrare un costante calo di peso per allarmare tutti, creare il caso, risolverlo con “l’intervento straordinario”. E poi? Toccherà al nuovo precario di turno trovare un modo alternativo di diventare famoso, star (o starletta) di una massa informe di poveri. Flessibili che lottano contro il proprio capo tutti i santi giorni. E che tutti i giorni cercano di fare bene il proprio lavoro per sperare (non pretendere) di migliorare la propria condizione lavorativa e, con essa, anche la propria esistenza (individuale e di coppia). Paola avrebbe dovuto pensare che è già stata molto fortunata ad essere entrata nella redazione di un quotidiano nazionale di questa portata prima che la crisi del giornalismo scoppiasse con tale e tanta violenza da decimare redazioni, giornali e posti di lavoro. Avrebbe dovuto pensare che nelle redazioni dei giornali (specie quelli importanti) ci sono gerarchie durissime, principi di cooptazione ed anzianità solidissimi (non lo scopriamo oggi, grazie a Paola, come funziona il mondo-casta del giornalismo). Avrebbe dovuto riflettere sul fatto che sette anni di gavetta non sono certo pochi, ma, nemmeno tanti. Paola avrebbe dovuto pensare a quei precari che cambiano lavoro ogni sei mesi e fino a cinquant’anni. Che sono costretti a re-inventare continuamente la propria professionalità, la propria personalità. La propria vita. Paola Caruso avrebbe dovuto pensare meno a se stessa, in nome del rispetto della dignità e della compostezza con cui decine di migliaia di persone (operai, lavoratori di call center, metalmeccanici, co.co.co, stagisti, ricercatori, precari della scuola, dell’università, della fabbrica) portano avanti, con coraggio ed umiltà (e, spesso, continuando a lavorare per sopravvivere e far vivere!), una vera e propria lotta quotidiana per garantirsi un futuro umano, libero da pressioni e scadenze. Nell’ombra e nel silenzio generale.

Una realtà è possibile (forse!).....

Sarà perché mi è sempre stato insegnato che la mediazione per raggiungere un compromesso dovrebbe rappresentare un obiettivo desiderabile in una discussione, in uno scontro più o meno acceso con un collega piuttosto che con un qualunque passante, per strada. Si sa come vanno queste cose, di solito. Quando sei piccolo ti scontri (e ti scotti) con la realtà del tuo comportamento ancora grezzo, privo di diplomazia. Le prime grandi delusioni, i primi scontri che rompono definitivamente amori ed amicizie. Così, nel giro di poco tempo ti ritrovi a fare i conti con la solitudine, la frustrazione, la scarsa capacità di farsi capire, comprendere. E pensi sia tutta colpa di chi ti sta intorno. Sbagliato anche questo. Ognuno è, in un modo o nell’altro, il prodotto degli stimoli e delle esperienze di vita che lo attraversano e che non proprio sempre desideriamo e/o possiamo controllare. Le strade che si prospettano di fronte a noi, a seguito del parziale fallimento prodotto dal nostro comportamento, sono due: radicalizzare quel comportamento grezzo, duro e severo verso gli altri e verso se stessi, oppure, decidere di dare un taglio col passato ed incominciare a considerare gli altri (e se stessi) con maggiore serietà e dignità. Ecco, oggi penso (e sono assolutamente convinto) che si stia assistendo ad un vero e proprio regresso in questo senso. E certamente non bisogna essere degli acuti osservatori (o dei ricercatori) per accorgersene. Lo noto nella mia quotidianità, nel comportamento delle persone che mi circondano più o meno casualmente. Lo noto nel tono dei dibattiti politici che ritrovano una puntuale eco tra giornali, tg e programmi di approfondimento. C’è sempre, in ognuno di questi contesti di vita, un enorme semplificazione dei termini del dialogo ed ampio spazio è lasciato allo scontro, all’accavallamento di voci, all’aggressione quasi fisica. Sembriamo bambini impacciati che, per farsi notare dagli altri, piangono e battono i piedi per terra quasi disperatamente. Questa stessa disperazione la vedo negli occhi e nei comportamenti di politici e presentatori tv. La ricerca quasi spasmodica e masochistica della violenza. Violenza di linguaggio, di oggetti di consumo, di comportamento, dei simboli. E la cosa più orribile di tutto questo e che respirare continuamente questo clima saturo di cattiveria, di scontro senza limiti ha sporcato non solo il dibattito pubblico, ma, anche l’anima (e la coscienza) di tutti coloro che vi assistono, vi vivono e vi prendono parte. Non potrò mai togliermi di dosso l’odore (meglio, la puzza) degli scontri tra i miei genitori poco prima che si separassero. Erano giornate, settimane, mesi in cui inalare costantemente stress, tensione nell’aria ti portava ad alienarti quasi completamente dal resto del mondo, svuotandoti di tutto ed agendo dall’interno. La violenza ti penetra e ti ripulisce di qualsiasi tratto di vivacità. Se pensiamo di poter adottare anche per l’analisi dei comportamenti sociali questa metafora biologica, allora, siamo capaci di fare un piccolo passo in avanti nella conoscenza di quello che sta succedendo attorno a noi spettatori passivi di questo sfascio. La polarizzazione estrema delle idee domina i salotti televisivi. Stragi, abusi, accessi indiscriminati alla vita personale di personaggi balzati all’attenzione pubblica come “mostro”, “terribile orco”, o, al contraio, “eroe”, “simbolo”, “icona”. Ma cosa si intende dire quando si usano con una straordinaria frequenza termini di questo tipo? Non si pratica una violenza semantica che confonde tutti e, anzi, punta sulla confusione per rimestare le acque e, nel frattempo, alimentare gli interessi di qualche magnate delle comunicazioni. Il quale ha ben compreso che sviluppando un meccanismo su grande scala per la produzione sistematica di oggetti culturali (testi, storie, notizie giornalistiche, ecc..) violenti e destinati ad una fruizione passiva di massa non fa altro che velocizzare quel processo che svuota il pubblico della anche minima voglia di reagire col pensiero razionale agli abusi che vengono giornalmente perpetrati a danno della sua mente. Non ce ne stiamo ancora accorgendo, ma, tutto questo ci sta uccidendo da dentro. Ci stanca, e sfibrandoci si impossessa di noi, ottenendo un’approvazione assolutamente priva di ostacoli. Un vero e proprio investimento sull’assuefazione di massa attraverso l’abominio delle comunicazioni. Un investimento con pochi rischi e strutturato sulla diffusione virale di rabbia, dialettiche accese che confondono i campi istituzionali e, con essi, la mente delle persone. Lo stordimento che anticipa la morte. Detto ciò, voglio esprimere il mio odio più profondo e maturo verso i continui attacchi all’intelligenza delle persone portati avanti da un sistema di cose (media, politici, comunicazioni di massa) che non ha mai smesso di considerare l’essere umano niente più e niente di meno come una risorsa strategica. Insomma, poco più di quello che rappresenta un pieno di diesel per un autovettura. Carburante che, una volta consumato, permette al sistema di muoversi e, così, di restare in vita. Dunque, sono stanco di fare da carburante a qualcuno. O anche solo di essere considerato così. D’altra parte, auspico che questa condizione di malcontento giunga ad un livello di devastazione delle coscienze tale da riuscire ad alimentare la diffusione di una comune necessità di cambiamento. Ma, dall’altr parte, penso che il livello di addormentamento sia tale che ci vorrà probabilmente ben altro (e di peggio) per risvegliare le famose “coscienze sopite”. In fine, quest’approccio violento all’esistenza, prima che ci conduca ad una crisi di nervi, dovrà essere immediatamente rimpiazzato dalla ricostruzione dei termini del dibattito. Pubblico e privato. Il che sarà impossibile da realizzare finchè avremo di fronte, sul palco e nello schermo, le stesse inutili persone che hanno tentato di ridimensionarci. Bah, l’unica cosa che viene da pensare è molto vicina alla rivoluzione. Anzi, rileggendomi sembro una specie di rivoluzionario neo-comunista post-democratico. In realtà, ho fatto riferimento esclusivamente alla mia anima, ai miei pensieri. Perché penso che qualcuno prima di me sia vissuto in una società che, in qualche modo, era migliore, più sana. E, in ultima analisi, perché credo ancora nel potere e nell’inevitabilità dei principi universali che regolano il vivere quotidiano (la libertà di parola ed espressione, il diritto alla privacy, l’autonomia degli organi istituzionali, il rispetto e la concordia tra le persone, ecc…). Principi che ritengo ancora più importanti di maggioranze ed opposizioni, colori politici, alleanze politiche ed orgie partitiche, destra e sinistra. Smettiamola di desiderare con un’ansia che non riusciamo nemmeno più a spiegarci che ci investa un’altra Avetrana, plastici di case e garage, giudizi affrettati e scandali. Usciamo da una dimensione della realtà per sviluppare finalmente uno sguardo che abbracci e comprenda tutto il resto. Facciamolo in modo sereno, ragionato, profondo.