Riflessioni libere sulla vicenda di Paola Caruso

Stavo pensando alla storia di Paola Caruso, la giornalista precaria del Corriere della Sera (redazione economia) che ormai da quattro giorni porta avanti uno sciopero della fame in segno di protesta per la sua condizione e, in particolar modo, dopo essersi vista “scavalcare” da un ragazzo più giovane di lei che, appena uscito da una scuola di giornalismo di Milano, è entrato al Corriere occupando un posto che Paola riteneva suo di diritto. Ho letto alcune cose sulla vicenda ed ho sviluppato una serie di idee sulla questione che vorrei condividere con voi.

- Ritenere, come ha affermato la stessa ragazza precaria (perché di una ragazza di quasi trent’anni si sta parlando) che dopo sette anni di gavetta era giunto il suo momento mi sembra un atto quanto meno presuntuoso. Confondere le rivendicazioni di una intera generazione di precari con il diritto ad occupare un posto liberato da un giornalista in pensione è, allo stesso modo, ingiusto, presuntuoso ed avventato;

- Avviare uno sciopero della fame, alimentando una forma di protesta certamente clamorosa non fa per niente bene all’immagine pubblica di questa massa di precari. Sempre rappresentati come meritevoli, intelligenti ed assolutamente disperati, pronti a tutto. Non mi sembra questo il modo di risolvere le cose, portandole nella dimensione più ortodossa, violenta ed estrema possibile. Evitiamo di renderci co-protagonisti di questo enorme processo di devastazione dei principi democratici su cui dovrebbe reggersi la società, così, come il mercato del lavoro che ne rappresenta una costola fondamentale. In fondo, non era proprio questo “esercito” di giovani e meno giovani disincanti e disillusi sul loro futuro che da sempre ha provato a battersi per un mondo diverso, migliore di quello attuale?;

- C’è una certa uniformità di pensiero ed azione all’interno di alcuni siti di social network che, in certi casi, alimentano un meccanismo di amplificazione ingiustificata delle notizie e dei fatti che vi trovano ospitalità. “Il popolo di Facebook” prima (terribile espressione), i blogger e Friendfeed dopo, hanno permesso all’ennesima precaria di questo mondo di guadagnare immediatamente in fama e notorietà. Perché? La ragazza sapeva e sa benissimo di ritrovare in queste piattaforme di socializzazione un “pubblico amico”, che vive spesso la sua condizione (magari in altri settori lavorativi) e, così, la pubblicizzazione di un gesto estremo si è imposto come il fatto principale degli ultimi quattro giorni. E lo è diventato con una rapidità ed una penetrazione on line che solo la solida “compattezza di classe (degli utenti di Sns)” avrebbe potuto garantirle. Per cui, quando P.C sostiene pubblicamente che il “popolo della rete” è con lei, parla di una classe di utenti interoconnessi a causa delle medesime condizioni di vita e, dunque, degli stessi sentimenti. Sentimenti che, in casi come questo, potrebbero prendere facilmente il sopravvento e portare un po’ tutti a solidarizzare del tutto con la ragazza (anche con gesti/toni/iniziative clamorose) senza considerare, ad esempio, che se Paola avesse ottenuto il suo posto nella redazione del Corriere della Sera, difficilmente avrebbe deciso di rinunciare al suo bel desk per unirsi e, magari, avviare una protesta nazionale in difesa dei diritti dei giovani lavoratori precari. Se lo avesse fatto, sarebbe stata degna di nota e notorietà:

- Se penso al modo in cui si comporta la classe dei blogger più noti, non posso non ravvisare il fatto che questi soggetti hanno oramai formato una solida casta borghesi di autori più o meno autorevoli. Per cui, per ottenere considerazione e spazio tra le loro pagine devi: essere oggetto di un fatto/avvenimento di cronaca davvero rilevante o, in alternativa, essere uno che scrive da anni ed anni e/o essere un loro amico. Per cui, anche qui, proviamo a rinunciare ai toni entusiastici così come a millantare la presenza di masse di cittadini liberi che scrivono, pensano, appoggiano. La “casta” dei blogger nel nostro paese, rappresenta una classe di potere capace di settare l’agenda dei temi rilevanti per la rete. E lo fa, né più né meno che come avviene con gli editori della vita off line. Per cui, mi domando: dove sono i grandi numeri che sostengono Paola?, ma, anche: dove sono finite la libertà di giudizio ed espressione che si ritenevano strutturalmente legate all’avvento della rete? Non è che ci siamo nutriti un po’ tutti (fino ad oggi) solo di una grossa illusione di massa?

- In fine, credo ci siano ben altri modi di risolvere una questione che, ad oggi, rappresenta la condizione di (non)vita di milioni e milioni di persone, anche più anziane e con più anni di precariato alle spalle di quanti ne abbia Paola. Se decidere di smettere di nutrirsi sembra, quanto meno alla ragazza, l’idea migliore per risolvere un problema congenito del mercato del lavoro, le questioni sono due: o la ragazza è così ingenua da credere che un gesto di disperazione possa risolvere le cose (se si batte per una classe di milioni di persone), o in alternativa, è così frustrata dall’idea di essere stata sorpassata da un collega (che, per quanto giovane, aveva ed ha tutto il diritto di essere assunto o sottoposto a una qualsiasi forma di assunzione contrattualizzata) che le ha soffiato il posto da ritenere il digiuno la forma migliore di farsi rispettare ed imporre all’attenzione “pubblica” il proprio caso:

- Poi ci si lamenta dei posti “riservati” alle persone solo sulla base di criteri di anzianità che sembrano valere ancora ed esclusivamente nel nostro paese. Che ci sia bisogno di aspettare che il collega più anziano vada in pensione per occuparne il posto rappresenta un meccanismo distorto, sbagliato. E mi sembra di capire che questa giovane precaria si batta più per la fluidificazione di un meccanismo distorto, ingiusto e sbagliato che per una autentica rivendicazione dei diritti di una classe senza futuro. Sarei quasi tentato di sostenere che questi gesti, queste persone, queste parole non fanno altro che rendere tutti noi (giovani precari) niente altro che tenera carne da macello per chi voglia comprarci, prometterci successo, illuderci di fare carriera. E se ciò non accade? Allora basta battere i piedi, salire sui tetti, pubblicare le foto della propria “pesata “ quotidiana per dimostrare un costante calo di peso per allarmare tutti, creare il caso, risolverlo con “l’intervento straordinario”. E poi? Toccherà al nuovo precario di turno trovare un modo alternativo di diventare famoso, star (o starletta) di una massa informe di poveri. Flessibili che lottano contro il proprio capo tutti i santi giorni. E che tutti i giorni cercano di fare bene il proprio lavoro per sperare (non pretendere) di migliorare la propria condizione lavorativa e, con essa, anche la propria esistenza (individuale e di coppia). Paola avrebbe dovuto pensare che è già stata molto fortunata ad essere entrata nella redazione di un quotidiano nazionale di questa portata prima che la crisi del giornalismo scoppiasse con tale e tanta violenza da decimare redazioni, giornali e posti di lavoro. Avrebbe dovuto pensare che nelle redazioni dei giornali (specie quelli importanti) ci sono gerarchie durissime, principi di cooptazione ed anzianità solidissimi (non lo scopriamo oggi, grazie a Paola, come funziona il mondo-casta del giornalismo). Avrebbe dovuto riflettere sul fatto che sette anni di gavetta non sono certo pochi, ma, nemmeno tanti. Paola avrebbe dovuto pensare a quei precari che cambiano lavoro ogni sei mesi e fino a cinquant’anni. Che sono costretti a re-inventare continuamente la propria professionalità, la propria personalità. La propria vita. Paola Caruso avrebbe dovuto pensare meno a se stessa, in nome del rispetto della dignità e della compostezza con cui decine di migliaia di persone (operai, lavoratori di call center, metalmeccanici, co.co.co, stagisti, ricercatori, precari della scuola, dell’università, della fabbrica) portano avanti, con coraggio ed umiltà (e, spesso, continuando a lavorare per sopravvivere e far vivere!), una vera e propria lotta quotidiana per garantirsi un futuro umano, libero da pressioni e scadenze. Nell’ombra e nel silenzio generale.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Sicuramente tu conosci personalmente Paola e la sua storia, la sua sofferenza, i suoi sogni, le sue competenze, la sua rabbia, la sua frustrazione e tutto il resto.
Sicuramente tu sarai un uomo libero, libero da pressioni e scadenze.
Io lo sono, faticosamente, e per questo, per non aver mai fatto compromessi col potere, di ragazzi giovani inesperti senza arte ne parte, ma carne fresca da modellare, ne vedo passare davanti tanti, quotidianamente.
Nutro molta pena per loro.

Sentenzioso ha detto...

Penso, prima di tutto, che ti saresti potuto firmare in modo che io e gli altri lettori avremmo potuto ricostruire per intero l'identità di una persona libera da "compromessi col potere" (che, poi, devi spiegarmi fino a che punto ti ritieni del tutto libera/o da compromessi!). Dato che credo di essere, al contrario di te, un pò più realista faccio fatica ad inquadrarmi come "uomo libero da pressioni e scadenze"....Non ho scritto perché parlo (o mi illudo di parlare) da una posizione diversa (o migliore) di quella di Paola...credo solo ci siano più cose che sono diventate il segno della decadenza di un paese. Dal punto di vista sociale ed esistenziale...Le frutrazioni e le scadenze ce le ho anche io, ma, credo che il modo di agire per cambiare una condizione di vita distorta ed inaccettabile debba essere diverso....

Mario Orefice

Anonimo ha detto...

Il richiamo al realismo è tipico, infatti, di tutti quegli uomini, proni al potere, che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato traendone dei vantaggi personali, piuttosto che cercare di cambiarlo, partendo anzitutto dal rimanere sempre fedeli a se stessi.
Sono anomino perchè non sono sciemo.

Sentenzioso ha detto...

Ho detto che sono realista, il che non coincide necessariamente con l'essere pessimisti e, ripeto, credo ci siano modi più efficaci di modificare lo status quo. Uno stato di cose che, ad oggi, non va bene nemmeno a me non perché sia un ribelle e/o particolarmente intelligente. Ma solo perché vivo dando un senso alle azioni che compio, alle parole che dico e poichè credo fermamente ci sia un modo migliore di vivere la propria vita. Il problema vero è che per cambiare le cose ci vuole un lavoro costante, certosino, quotidiano e individuale (anche interiore). MI batterei in questo modo, non attraverso uno sciopero della fame d appena cinque giorni....

P.s il tuo anonimato esprime una contraddizione tra quello che dici e quello che fai che non fa altro che confermare quello che penso e che ho scritto...