Vox populi, vox dei: quando il carro dei vincitori andrebbe solo rottamato...

Una volta delineatosi il quadro relativo ai risultati dei vari quesiti referendari. Una volta scongiurato con matematica certezza il rischio della mancanza del quorum è, com’è evidente, scoppiato lo scontro interno alla famigliola politica attorno ai dati e, con essi, sono proliferati con incredibile velocità diversi tentativi d’analisi del voto. Tutti spasmodicamente tesi a sottolineare le esatte proporzioni con cui si sono distribuiti successi e insuccessi, onori e disonori, capacità profetiche e prove di incompetenza politica. Tra i vari partiti, le coalizioni. Così da ricreare due grandi partiti, due famiglie. Da una parte i vincitori: firmatari, promotori ed elettori. Dall’altra, i perdenti: il governo, il centro-destra, Berlusconi. Due partiti in cui, tuttavia, sono stati re-introdotti gli stessi personaggi, ridisegnate le geometrie di un potere che, alla fine, è sempre saldo nelle mani dei soliti (ig)noti. Il via, stavolta, lo ha dato Calderoli che, commentando il risultato al referendum, ha parlato di due sberle (amministrative e referendum) forse tre (la prossima potrebbero riceverla con la fiducia al governo) che sarebbero state scagliate evidentemente da parte dell’opposizione politica o da chi per loro. Anche Vendola, di solito diplomatico e dotato di buon senso, non ha resistito alla voglia di rivendicare a sé ed al proprio partito (anch’esso personale come quello del nostro premier) se non tutti, buona parte dei meriti della vittoria dell’immenso e trasversale popolo del SI. Un popolo in cui, a ben vedere, hanno contato in modo determinante:
- gli elettori del Terzo Polo;
- coloro che, di solito, votano Pdl e uno dei diversi partiti di governo;
- i cosiddetti indecisi che si sono mobilitati in buona parte;

Per cui, a ben vedere, non si può parlare affatto di vittoria o sconfitta. Praticamente per nessuno dei partiti attualmente facenti parte dello spettro politico nazionale. Questo, se fossero stati degli analisti obiettivi, avrebbero dovuto capirlo in seguito al risultato elettorale delle amministrative che, in generale, hanno segnato una profonda sconfitta nei confronti di tutti i partiti. Una sconfitta che risiede, come il referendum ha confermato, non tanto nella voglia di votare altro quanto, piuttosto, nella profonda incapacità del panorama politico di offrire programmi concreti, governi di lungo periodo, facce nuove e credibili. La vittoria di De Magristris a Napoli, ad esempio, invece di determinare grande gioia ed entusiasmi nel popolo della sinistra avrebbe dovuto avviare una fase di rielaborazione della propria offerta politica. Un’offerta, ad oggi, scadente, contigua con quella della fazione opposta ma, soprattutto, incapace di essere aderente alle necessità della gente. Se, dunque, con le amministrative la gente ha lanciato un messaggio di profonda sfiducia (della serie “non sappiamo più chi possa rappresentarci per cui ci affidiamo ancora ai meno sputtanati della lista”) verso la politica; con il referendum il messaggio contiene, invece, una profonda voglia di rivendicare a sé (il popolo sovrano) la voglia e il diritto di imporre l’agenda dei temi politici a politici, nazionali e locali. La voglia di partecipare a questo messaggio corale è, inoltre, stata trasversale ed ha spinto chi di solito non vota a dire come la pensa. E chi di solito non vota ha detto, in buona sostanza, “basta a questo modo di concepire e praticare la politica”. Per cui, anche in questo caso, non ci sono vincitori né vinti. C’è un modo di fare politica e, allo stesso tempo, una classe dirigente che ha superato metà della strada che la separa dal tramonto definitivo. Certo, apparentemente può emergere la vittoria dei cosiddetti “partitini” alla Sel o Idv. Ma io, dietro la preferenza accordata a questi partiti/persone, ci vedo un voto di ripiego, di frustrazione derivante dalla delusione verso l’operato dei grandi partiti (d’altra parte, i flussi elettorali più recenti testimoniano una migrazione proprio in questa direzione!).
Ad ogni modo, capisco che vi sia una buona componente di premeditazione nella volontà di sottolineare come le “due sberle” di cui sopra siano associate automaticamente ad una vittoria della sinistra e, dunque, ad una sonora sconfitta della destra. Forse perché, da una parte, si fa fatica ad immaginare (e programmare) un paradigma del fare politica che sia finalmente in grado di superare la contrapposizione secolarizzata tra le solite facce (da Di Pietro a Vendola a Berlusconi, in modo trasversale) di destra e di sinistra. Che sia capace di accogliere il risultato del referendum non come un punto da assegnare alla squadra dei SI, ma, come la volontà di abrogare qualcosa che è stato proposto. Qualcosa a cui, tuttavia, vanno contrapposti un modello di vita, individuale e collettiva, nuovo, sostenibile e condiviso da tutti. E’ finito il tempo in cui i partiti si facevano portatori della voce della propria base di riferimento. Un tempo in cui le indicazioni dei leader erano in grado di predire davvero i risultati elettorali (il tempo in cui i partiti erano carichi di ideologie e un tempo, ormai passato, in cui i leader erano facce che godevano di largo seguito e rispetto nell’elettorato). La dimensione verticale sta morendo. Oggi è il tempo in cui la gente vuole discutere di tutto. Vuole contare, vuole decidere, vuole partecipare. E la cosa, se finisse qui, sarebbe un fenomeno di rigurgito anti-partitico e anti-istituzionale tutto sommato comprensibile e giustificabile entro gli schemi d’analisi classici. Ma c’è di più. La gente vuole partecipare a partire da nuove forme di aggregazione, vuole decidere non solo i temi, ma, anche fini e metodi d’azione. A ulteriore testimonianza di quanto profondo (e, credo, maturo) sia l’avversione nei confronti di un modello che si è pronti a rimpiazzare già da domattina. D’altra parte, il ritorno di termini come “bene comune” e “azione collettiva” così come dell’azione diffusa, orizzontale e cooperativa delle associazioni pro-referendum fanno davvero ritornare con la memoria ai primi anni ottanta, alle discussioni anti-nucleare, alla fusione di quell’istanza con una società civile (organizzata o meno) che aveva una gran voglia di andare al di là dei famigerati blocchi per dire la propria sull’uso civile del nucleare. Rifiutando, anche in quel caso, un modello di fare politica. Un modo di utilizzare il potere rappresentativo per prendere decisioni che la gente avrebbe voluto prendere in autonomia, affermando il sacrosanto diritto di addurre le proprie ragioni. Ragioni che non sempre coincidono con quelle del politico di turno chiamato a rappresentarci. Per cui, è indiscutibile il significato politico che quel referendum (come questo) hanno avuto. In cui il termine “politico”, però, è inteso come volontà di riaffermare una volontà popolare e non come “arma politica” da scagliare contro il nemico per costringerlo ad arrendersi agli occhi di un’opinione pubblica che si crede sia passata dall’altra parte della barricata (con “noi”, lontano da “voi”). Stavolta non c’è di mezzo il solito “balletto della politica”. Sono in gioco temi più grandi e più gravi che, spero, siano il segno di cambiamenti più profondi e radicali. La gente vuole spazzare via un intero sistema. Anche io ho fatto quanto ho potuto anche con la volontà di lanciare un preciso segnale che andasse al di là dell’espressione di un voto (il cosiddetto “quinto quesito” che, tuttavia, non è rivolto solo al governo in carica, ma, a tutto un universo politico). D’altra parte, ad ognuno tocca essere onesto con sé stesso, fino in fondo. In un momento come questo, poi, in cui si ha davvero poco da perdere, si diventa tutti più trasparenti, più sfacciati. Per cui, al di là di dietrologie e letture statistiche lasciano il tempo che trovano, il segnale mi pare essere ormai inequivocabile.
La cosa che temo davvero è che, a questo punto, la grandezza di questo risultato (politico, civile, popolare) rischi di esser spazzata via e minimizzata da quella terribile macchina dell’offuscamento e della normalizzazione di tutto e tutti che tiene dentro dai giornalisti meno obiettivi e prezzolati a praticamente tutti gli appartenenti all’attuale classe politica i quali, per sopravvivere, non hanno altra strategia da adottare se non quella che consente loro di assorbire, remixare il tutto con fatti e fatterelli laterali, addizionare con dichiarazioni pubbliche timorate e diplomatiche (prima che cambi il vento c’è sempre un immobilità nell’aria che nessuno ha il coraggio di violare!) normalizzare a suon dell’impudente e spregiudicato “costi quel che costi” (che si è rivelato esser piuttosto una profezia) e andar avanti come se non fosse accaduto nulla. Indifferenti. Da oggi credo che questo non sarà più possibile.