Suggestioni parigine.......

Appena rientrato da Parigi mi porto dentro tutti i ricordi, condensati in pochissimi giorni, di posti meravigliosi. Una città incantevole ed assolutamente ricca di stimoli. Si respira un senso di libertà a cui non sono proprio abituato dalla nascita. Anzi. Ogni volta che ho visitato una grande città, mi sono sempre soffermato un po’ a riflettere sull’idea di libertà che le persone che la abitavano avessero. Perché?, perché non è mai stata una cosa scontata, almeno per me. L’idea (e la pratica) di occupare spazi, di non suddividere la città tra spazi bui ed infrequentabili e zone franche, oasi nel deserto. Sviluppare una simbiosi con lo spazio circostante, avendo il grande potere di dare una propria forma, un senso proprio a ciò che si tocca, si abita. Ogni volta, in ogni città, questo aspetto mi ha sempre catturato. E’, forse, come quella bella sensazione di poter respirare a pieni polmoni che si prova quando si gira per la prima volta in un posto sconosciuto. Zaino in spalla, una moderata voglia di perdersi e lasciarsi prendere dalle meraviglie, dagli angoli nascosti che quel luogo nasconde allo sguardo affamato di turisti ed residenti. Insomma, ho avuto poco tempo a disposizione ma ho cercato di memorizzare ogni singola sensazione. Inspirarla e tenerla dentro. Ed è stato un esercizio affascinante. Mi porto, tuttavia, più di un rimpianto. Innanzi tutto, per non aver avuto tempo sufficiente. Per vedere cose, incontrare gente, vivere gli amici. Thilina, Lelio. Provo una certa ammirazione per avuto il coraggio di seguire le loro scelte. Da una parte c’è lo studio, il famigerato “pezzo di carta” che, sfortunatamente, non coincide quasi mai col raggiungimento delle proprie passioni. E’ in questo mare di incertezze strutturali, ammiro davvero il loro coraggio nell’abbandonarsi alle loro passioni, nel tentativo di razionalizzarle. Sviluppare un piano, inseguire un sogno lavorando tutti i giorni. Questi ragazzi passano ore nella scuola di teatro che hanno deciso di frequentare. Sudano, danno il meglio di loro. Cercano, con gran fatica e in condizioni di vita piuttosto precarie, di fare quel salto dalla passioncella amatoriale verso la professionalizzazione che fa della recitazione un’arte, una filosofia di vita. E Parigi, a dire la verità, si sposa naturalmente con questo modo di affrontare la vita. Mette a disposizione spazi, da significato e valore ai momenti artistici. Dona nuova linfa a chiunque voglia nutrirsi di arte. Nel fascino di quella città, ho ammirato molto di più e lucidamente il fascino della vita dei miei amici. Schiavi delle loro passioni ed affannosi corridori verso un’ideale di vita che in pochi hanno il coraggio di tradurre in realtà. Una stima senza invidie, autentica. Attraverso loro ho riflettuto sulle sofferenze della gavetta. Sulla difficoltà di emergere in un ambiente così variegato e competitivo, in un paese straniero, lontano da casa. I lavoretti, più o meno strambi, per racimolare qualche soldo per arrivare sani e salvi a fine mese. E li ho visti affrontare tutto ciò senza pretese eccessive, senza grandi ansie e tensioni verso una idea di vita perfetta, almeno per i più (compreso me…credo). Trasferirsi, insediarsi, crearsi un modo e nutrirsi di quello che è in grado di dare. Di quello che si è in grado di ottenere. Nulla di più facile, niente di più complesso. Vivendo nelle loro vite, respirando gli umori di quell’ambiente è come se mi fossi arrestato per un istante. Tirandomi fuori dal traffico assordante della quotidianità. Ho avuto paura ma, in fin dei conti, lo rifarei. Proprio con loro. E, tra l’altro, non è da sottovalutare la bellezza cinica dell’assentarsi momentaneamente dalla propria vita per riprendere le fila di quelle degli altri. Ci si sente come osservatori esterni, liberi e disincantati. Si osserva liberi di giudicare senza essere modificati dal giudizio degli altri. Fai un po’ la fine del parassita. Guardi senza essere guardati. Ti stacchi, per poco, dal contatto diretto con quel margine di fallimento che la “tua” vita t’impone quasi come una condizione necessaria. E, in tutto questo, non va assolutamente ridimensionato il valore del viaggiare da soli. A volte, fa estremamente bene. Specie a chi piace vivere l’esperienza del cambiamento che ogni viaggio presuppone con quel piacevole senso di (auto)abbandono, ancora razionale, ai margini del propria soglia di normale consapevolezza. A me è sempre piaciuto. Anzi, è l’ingrediente che ha reso ogni viaggio (quei pochi, quanto meno) simile nel livello d’intensità delle emozioni, ma, allo stesso tempo, estremamente vivace e variegato nelle emozioni che ha sprigionato dal contatto/attrito con l’esterno. Non so bene cosa ho scritto (mi succede quasi sempre!), ma, le varie idee che avevo in testa le ho riversate, più o meno tutte, qui dentro. Non me ne vogliano gli estimatori del pensiero lineare. So che, a loro specialmente, faccio un gran torto. Soprattutto col mio modo di scrivere!.

Quest'indagine dell'ISTAT mi ha riportato indietro con la memoria. A quando avevo ancora fede....

Leggere questo rapporto dell’ISTAT (di cui sotto), interrogativi a parte, mi ha letteralmente riportato ai tempi del liceo. Gli ultimi in cui ho creduto davvero in tante cose. Quando si pensava nella possibilità di cambiare le cose con lo strumento della protesta, la contestazione dell’autorità e si pendeva come pesci all’amo di vecchiardi barbuti ed intellettualoidi che ti intortavano con i loro discorsi tra il filosofico e il politico ma che, alla fine, risultavano sempre convincenti, accattivanti in qualche modo misteriosamente efficace. Ricordo i collettivi, le autogestioni. I conflitti e le tensioni tra il partito dell’autogestione degli spazi come forma di protesta democratica e quelli favorevoli all’occupazione perché radicali, rivoluzionari puri. Non parliamo, poi, della “puttanizzazione” (passatemi il termine!) di Marx sbandierato da quelli di sinistra in possesso di una preparazione filosofica fresca di ginnasio e quelli di destra che odiavano qualsiasi cosa si colorasse di rosso. I cineforum con dibattito in coda. I tazebao, i fogli, i manifestini di protesta. “Per tutti coloro che volessero prendere parte al corteo riunione in P.zza Mancini, adiacente piazza Garibaldi, con partenza alle ore 9,00”. La polizia che ci scortava come se fossimo davvero pericolosi. I rappresentanti che si schieravano in prima fila con tanto di megafono, cori e striscioni anti-Moratti, contro la guerra in Palestina, contro la disoccupazione, contro la guerra in Iraq, contro l’invasione dell’Afghanistan, contro Berlusconi. Contro (quasi) tutto! Ricordo, sopra ogni cosa, le discussioni estenuanti su questioni di principio all’interno dei meravigliosi collettivi del sabato pomeriggio. Come si può declinare il diritto allo studio ?, legge Moratti si o no? Le passerelle, chi le conosce bene?.....Ricordo l’emozione durante il discorso per le elezioni dei rappresentanti d’istituto. Ricordo bene le promesse, l’enfasi, la tremarella, gli sguardi degli altri che leggevano perfettamente tutto il mio imbarazzo. C’era tutto il liceo quel giorno. Poco più di ottocento studenti…Credo che fui eletto con poco più di trecento voti. In fin dei conti ne avevo fatte davvero tante di promesse. Troppe per essere esaudite tutte!...e infatti….Ricordo l’assemblea di metà dicembre che avrebbe deciso tra l’occupazione (chi non ha vissuto almeno un autunno caldo a quei tempi?) e la ripresa delle attività didattiche. Ricordo perfettamente le minacce, il supporto dei miei compagni di classe. Il discorso lungo, tortuoso che avrebbe dovuto convincere quei ragazzini che la ripresa delle lezioni fosse la cosa più giusta, che nulla si poteva fare a quel punto per limitare i danni di una riforma che era diventata giù legge. Niente. Come in ogni agone politico che si rispetti, la componente emotiva, cavalcata senza ritegno e a muso duro dai pro-occupazione, ebbe nettamente il sopravvento. Ricordo, al termine dell’assemblea, che fummo letteralmente cacciati fuori dall’edificio come i peggiori appestati. C’è sicuramente qualcosa di ingenuo in tutto questo. Ci sono discussioni rivelatesi pure perdite di tempo, sollazzi per oratori improvvisati e brufolosi. Ma, a quei tempi (ai miei tempi posso dire oggi), c’era voglia di confrontarsi, di fermarsi a discutere. A litigare, se necessario. E si studiava a casa prima di fronteggiare qualcuno in collettivo. Ci si informava, si andava a vedere le leggi, i decreti, gli emendamenti. Si cercava, da soli ed assieme ad altri, di costruire una coscienza e, attraverso di essa, una personalità. La nostra prima identità più o meno complessa. Era un processo bello, tortuoso, lungo e gerarchico. Entravi da pivello senza idee e, dopo anni passati ad ascoltare collettivi e prendere parte a manifestazioni, ne uscivi più maturo e, forse, più consapevole di ciò che si aveva attorno. Non voglio esprimere giudizi di merito. Si poteva essere a favore o contrari. Si poteva aver speso quegli anni in un dissenso permanente verso tutto questo, ma, quanto meno, anche quello era un modo di esternare un pensiero frutto di riflessioni più o meno complesse. C’erano tanti stimoli, e molti altri se ne cercavano. Io avevo fame di conoscere. Mio padre mi ha sempre detto che per uscire vincitori da uno scontro dialettico bisogna fare di tutto per saperne più dell’altro. Solo la conoscenza può permetterti di sconfiggere il tuo avversario. Col tempo ho capito che non c’è sempre una dialettica da combattere e non sempre si sa più del proprio interlocutore. Ma la ratio di quella lezione la ritengo ancora un insegnamento più che vivo ed assolutamente sensato. Ora mi domando: ma oggi quanti ragazzi vivono quel tempo con la stessa intensità ?, quanti di loro pensano ancora che confrontarsi e dialogare siano le vie migliori per crescere ?, quanti credono che la politica sia una roba solo noiosa e lontana da loro? Forse, proprio nella risposta a queste domande, un po’ critiche ed un po’ romantiche, c’è tutto il senso di quel dato allarmante che ci dice che i giovani fino ai 24 anni si disinteressano quasi totalmente di politica, così, come d’ogni forma di partecipazione politica attiva e/o passiva.
(Il dato cui faccio riferimento è riportato nel post precedente).

Rapporto ISTAT sulla partecipazione politica degli italiani: qualche spunto di riflessione...

Poche ore fa mi sono imbattuto, navigando tra blog di blog di bloggers, nel link all’ultimo rapporto ISTAT sul grado di partecipazione politica degli italiani (dai 14 anni in su). Ed ho notato alcune cose che potrebbero essere di un qualche interesse.

1) Le donne, in linea di massima, fanno registrare un notevole incremento sia nel momento dell'ascolto che in quello della raccolta di informazioni di natura politica (lettura di quotidiani, visione di programmi a sfondo politico), sia per quanto riguarda la partecipazione attiva a cortei, comizi, partiti ed organizzazioni. Nel rapporto tale aumento è presentato sotto forma di progressione storica (dal 1999 al 2009) e, rapportato all’incremento relativo all’interesse da parte degli uomini, fa emergere ancora di più il rapido progresso delle donne. Nella categoria di genere, tuttavia, si mantengono quasi inalterate le differenze strutturate a partire dalle variabili più strutturali, storiche e tipiche della nostra popolazione. Questo significa che, nonostante questa notevole progressione, le donne laureate e diplomate si informano di più di quelle che possiedono la licenza media e/o elementare. Le donne del nord-est più di quelle calabresi o pugliesi. Le imprenditrici e le libere professioniste molto di più delle massaie e/o delle lavoratrici dipendenti. Tali differenze connotano, allo stesso modo, anche la variabilità di interesse e partecipazione attiva interni alla categoria degli uomini.
2) Nota piuttosto dolente: i giovani fino a 24 anni, sia maschi che femmine, manifestano un livello di partecipazione alla vita politica (ascolto, raccolta di notizie, partecipazione a dibattiti) nazionale estremamente basso. Un terzo circa dei giovani intervistati, inoltre, motiva quest’allontanamento con una sfiducia cronica nella politica così come nelle istituzioni e/o un disinteresse latente verso tutto ciò che sia ricollegabile alla politica nostrana. Si abbassa anche la densità della cosiddetta “partecipazione visibile” (organizzazione di comizi, cortei, attivismo politico ecc..).
3) Altra nota dolente: tra le maggiori fonti d’informazione primeggia, senza concorrenti, la cara vecchia televisione. Le altre due fonti indicate con la percentuale relativa più alta sono la radio ed i quotidiani. Seguono le cosiddette agenzie di socializzazione (famiglia, parenti, amici, colleghi). Anche qui ritorna una matematica divisione del paese in due. Le donne preferiscono tv e settimanali. Gli uomini tv e quotidiani rigorosamente stampati. Gli abitanti del nord si appellano ad una media di 2-3 fonti differenti. Coloro che vivono al Sud utilizzano in modo particolare la televisione ed, in alcune regioni, la cerchia di amici e parenti viene indicata come la seconda fonte di informazione, a pari merito con i quotidiani. Ad ogni modo, il dato che emerge lampante è che gli italiani s’informano e/o parlano molto di politica (e vanno evidentemente anche a caccia di notizie pseudo-politiche e di vorticose discussioni meta-politiche, a giudicare le fonti d’informazione privilegiate!), ma, la praticano sempre di meno. I giovani, d’altra parte, non lasciano ben sperare per quanto riguarda il futuro prossimo della politica attiva, partecipata.
4) Nota. Nella lettura del rapporto manca totalmente qualsiasi riferimento ad internet e/o alla fruizione d’informazioni (anche di natura politica) attraverso dispostivi mobili. Tra l’altro in un paese (l’Italia!) che, a dispetto di problemi strutturali nella fornitura di connessione su tutto il territorio nazionale, può vantare una percentuale di dispositivi mobili per persona pari a circa 1,2 (cioè, una media di quasi due cellulari per abitante!). A questo punto, dunque, mi domando: quanto il riferimento alla Rete e/o alle piattaforme per la produzione/fruizione di contenuti potrebbe modificare (in positivo) il dato relativo alla partecipazione politica (specie per quanto riguarda i giovani fino ai 24 anni di cui sopra) ?, perché l’ISTAT non ha affatto tenuto conto dello spostamento di una parte dell’opinione pubblica sulla Rete e/o di una generazione di “nativi digitali” che sfruttano i social networks anche, ad esempio, come fonte per l’acquisizione in via informale di notizie ed informazioni?.....

Credo sia il momento giusto per soffermarsi a riflettere ed analizzare in profondità anche queste Realtà…Non stiamo parlando più tanto di alternative quanto di nuove frontiere della comunicazione. Una comunicazione che, tra l’altro, produce già conseguenze reali ed effetti ben visibili.

Pensavo alla festa della donna (parte seconda).....

Insomma, eliminati i terrori e le forti contraddizioni che vedo in alcuni comportamenti delle donne, specie di quelle che si ritengono affiliate al “partito della donna”. Un partito che, nato sull’onda dei movimenti per l’affermazione della parità di genere, mi sembra la prima di una serie di contraddizioni che, a mio avviso, finiscono col ridimensionare il valore e l’importanza sociale della stessa lotta per l’uguaglianza. Non c’è niente da fare, ho un pensiero collaterale a quello della donna. Devo, in qualche modo, parlare di mia nonna. Sembrerà una sciocchezza, una banalità ma quando penso a quelle donne della fabbrica di cui parlavo nella prima parte, mi viene a mente proprio mia nonna con la sua vita, le sue sofferenze di cui noi non avvertiamo nemmeno il più pallido riflesso. Siamo i nipoti di quelle vite, di quel tempo. Altri hanno lottato per noi, per evitarci ogni male. E non lo dico con soddisfazione. Anzi, Con una consapevolezza che, come un tocco di pennello, colora sempre con un po di tristezza la mia vita. E come se loro (i miei nonni, i loro padri…) fossero stati una specie di cantante agli esordi che, per esibirsi, deve scendere a compromessi fare la fame suonando per marciapiedi, agli angoli delle strade. E noi, siamo il prodotto di quella fatica immane: il cantante diventato rock star di successo. E siamo infelici, depressi e drogati di malinconia proprio come un front man che ha tutto ed è orami pieno di sé. Avvertiamo mancanze che non sappiamo colmare perché crediamo di riuscire a colmare con le cose o, peggio, distruggendo la vita degli altri come mantidi religiose. Vabbe….A parte la digressione, mia nonna ha sempre rappresentato un modello di donna fiera, rispettosa ed amorevole. Una donna che ha davvero lottato per affermarsi, nel lavoro (mia nonna ha sempre fatto lavoretti da poco, mio nonno era il lavoratore indiscusso!), in famiglia, con gli stessi figli maschi. La forza che il suo volto ancora oggi emana rappresenta un esempio di vita per me. La fierezza che, anche in vecchiaia, è capace di esprimere mi fanno pensare al passare dei tempi, all’indebolimento che ha colpito mortalmente la mia generazione, per non parlare di quelle che verranno. Ho sempre provato ad immaginare, attraverso i racconti di mio padre, come fosse quella giovane coppia ai tempi del loro primo incontro, prima che dessero vita alla famiglia numerosa di cui anch’io sono parte. Ricordo un racconto in cui mio nonno, tornato distrutto a casa dopo ore e ore di lavoro passate in fabbrica ad aggiustare vecchi tram malandati, ritrova lungo il cammino un portafoglio con un bel gruzzolo all’interno. Mio nonno, all’epoca non se la passava bene per niente, i figli iniziavano ad arrivare e con essi le spese, i conti che non tornavano. La loro forza nulla poteva contro la precarietà delle loro condizioni materiali. Ma, nonostante questo, mio nonno rifiutò di prendere quei soldi e, così, ne denunciò la scomparsa sperando, al più, in un azione buona da parte del vero titolare di quel borsellino pieno di banconote. Ecco, in questa storia un po’ quotidiana (banale, forse) ci vedo tutta la grandiosità di una umanità dignitosa e felice anche solo di essere al mondo, unita. Ci vedo un senso profondo della famiglia di cui non ho potuto, almeno come uno dei tanti figli di genitori separati (molto alla moda!), avere un’esperienza diretta. In quella storia, guardandoci letteralmente dentro, ci vedo anche un senso dell’essere coppia che nulla aveva a che vedere con spogliarelliste, scappatelle e transessuali. Un amore sincero, pulito. Ingenuo, ma, certamente felice. Quella felicità l’ho rivista nelle facce dei loro figli. Mio padre, i miei zii. L’orgoglio dell’appartenenza, l’innato rispetto dei ruoli. Quelli erano genitori da rispettare con profonda ammirazione. Un ammirazione che, in me, nei miei coetanei e in quelli più giovani di me, raramente vedo espressa verso qualcuno o qualcosa che la meriti o che, in qualche modo, l’abbia maturata sul campo!. Non c’è più tanta ammirazione, si riflette poco sui buoni esempi e si perde davvero troppo tempo a parlare di modelli, esempi, personaggi e storie negative. In questo buio, allora, il pensiero che mi ha riportato a questa idea di famiglia oramai tramontata rappresenta un inaspettato momento di luce, una bella giornata in questo inverno lungo e intenso. Nell’immagine dai contorni nitidi ed il volto scavato dal Tempo e dalla (S)storia di mia nonna, dunque, vedo un tempo ed una donna con un carattere ed una capacità di amare che non ho mai più trovato. In quella donna vedo un saper stare al mondo che mi fa sentire fragile, piccolo. Mi fa ombra. E nel ricordo di quel tempo, allora, che voglio rendere omaggio alle donne affinché ognuna di loro, rileggendo il presente anche con l’aiuto di chi ha vissuto ed è stata giovane ieri, magari possa acquisire un briciolo di consapevolezza in più. Quella consapevolezza che, oggi, è diventata una merce più che rara. In alcuni uomini, così, come in alcune donne. Nei grandi come nei più giovani. A Nina…..

Pensavo alla festa della donna (parte prima).....

Sono oramai un po’ di ore che ci rifletto. Anzi. A dire la verità, mi sono proprio svegliato con l’idea precisa di scrivere qualcosa. E, quindi, ho iniziato subito a pensarci. Dunque, vediamo. Festa delle donne, solita festa consumistica per coppie dall’intelligenza discutibile che credono di riuscire a rinsaldare l’affetto reciproco con uno scambio di fiori, profumi e balocchi di varia natura. Uscita del lunedì sera del gruppone di donne, oramai di tutte le età (purtroppo!), frustrate ed affamate di corpi maschili. Pizza, alcool, tristissimi piano-bar e giovani ragazzi sotto-pagati che, per un pugno di soldi ed una cena pagata, si lasciano svilire per restituire a quelle donne un poco della loro dignità perduta o, forse, mai esistita. Già mi vedo la coppia col marito che oscilla tra il patetico ed il gelosamente patetico per l’uscita di stramacchio della moglie e quest’ultima che si tira a lucido come una vecchia barca che non scende in mare da anni. Che mare di tristezza!. Bene. Dopo essere riuscito faticosamente a pulire, depurare i miei pensieri otto-marzeschi da tutto questo sporco superfluo e inutile, mi torna alla mente la storia di questa festa svilita e schiacciata da esigenze commerciali ed equilibri di coppia da ristabilire. Torno, credo, al tempo delle elementari. Allora, fu la professoressa Sodano, di cui ero ovviamente innamorato (come in ogni copione da scuola elementare che si rispetti!), a raccontarci la storia di questo gruppo di operaie di Chicago morte per un incendio scoppiato all’interno della fabbrica nella quale lavoravano anche 14 ore al giorno. Una storia fatta di lavoro, sacrificio, sfruttamento, di una discriminazione di classe che, ai primi del novecento, sottometteva e sottopagava. Indeboliva e sfruttava migliaia di proletari e, tra questi, le donne subivano senza dubbio le violenze maggiori. Doppiamente sottomesse, in casa ed al lavoro. Costrette alla fatica nelle fabbriche e ad un rispetto obbediente tra le mura domestiche. Ricordo ancora che la voce della professoressa si faceva roca, il tono si abbassava sempre un po’ durante la narrazione. In quel calo di voce oggi leggo la consapevolezza profonda di una lotta che, attraverso la storia, le donne hanno dovuto compiere per affermarsi nella società. Quella maestra di scuola sapeva benissimo da dove veniva e, con quel racconto, esprimeva il suo rispetto più profondo verso quelle donne che, come sorelle maggiori, le avevano aperto la strada al cambiamento. Verso un miglioramento delle condizioni di vita di cui lei era il prodotto più felice e maturo. Chissà se tutte le donne di oggi conoscono almeno i contorni di quella storia o, piuttosto, la bollano come un noioso racconto che spezza il divertimento, smorza l’entusiasmo di una festa che resta tale solo nel nome, ma che, in realtà, andrebbe intesa come un momento di ricordo, di riflessione assolutamente seria. Ecco, questa riflessione potrebbe aiutare molto le donne, specie le più giovani. Potrebbe insegnar loro a combattere per affermare le proprie idee. Ed a farlo, in modo particolare, contro coloro (uomini e donne) che ne ridimensionano gli spazi di libera espressione. Gli uomini, in questo, posso certamente essere un esempio certamente negativo. Ma, allo stesso modo, mi fanno molta paura quelle “donne mascolinizzate” che ritengono che le donne devono darsi una mano, a tutti i costi ed in ogni situazione. Quelle che si battono per l’uguaglianza di genere e, poi, di accontentano delle quote rosa in politica, nei luoghi di lavoro (quasi come se stessimo parlando di una minoranza etnica!). Ho paura di quelle donne che, una volta raggiunto il potere, applicano un razzismo al rovescio, a danno di uomini capaci e/o donne più giovani ed anch’esse in gamba. Mi preoccupano quelle donne che credono ci sia sempre una guerra da combattere. Allora attaccano per timore di essere attaccate. Ma, in modo particolare, mi terrorizzano quelle che ritengono che l’unico modo per farcela “in questo mondo dominato da maschi” sia darla al più potente in circolazione. Queste fanno davvero la rovina del genere femminile. Escludendo le più brave, oneste e capaci perché magari non le seguono sul terreno dei favori, dei compromessi “costi quel che costi”…..(continua)…

"Dialettica dell'Illuminismo": intuizioni sparse....

Ieri mattina ho iniziato a leggere un libro che mi è stato assegnato tra i “compiti” del dottorato. Il testo si chiama “Dialettica dell’illuminismo” ed è stato scritto dai due principali esponenti della cosiddetta scuola di Francoforte: Adorno e Horkheimer. In tempi non sospetti, questi ed alcuni altri autori (di origine tedesca) hanno avviato una lunga riflessione attorno alla società. Riflessione legata, in modo particolare, ad una rilettura in chiave moderna della teoria economica e dell’approccio allo studio della storia di Marx. Una rilettura che, nei fatti così come in questo testo, si dimostra subito essere il punto di partenza di una sorta di (neo)pessimismo cosmico applicato all’uomo e alla storia della società. Non sempre giustificabile anche se, in parte, comprensibile (almeno per me!). E nella lettura delle pagine iniziali ho scoperto l’origine della decaduta dell’uomo. Una crisi di umanità di cui avevo sempre incolpato la modernità, come ci insegnano dal liceo. Stato moderno, società civile, rivoluzioni industriali, partiti di massa, cultura di massa, esperienze totalitarie ecc…Invece, il tempo in cui l’essere umano ha iniziato a darsi delle strutture attraverso cui osservare sé stesso e la realtà che lo circonda è molto, molto più lontano. Il testo ritrova questo punto nel tempo dell’affermazione del positivismo tipicamente di stampo illuministico. Nella fede nella scienza, nella capacità dell’individuo di dominare ogni forma di alterità col ragionamento, col pensiero razionale. Le forme, certo, sono nuove, complesse e raffinate. Ma niente di particolarmente diverso è avvenuto ben prima, con l’invenzione del linguaggio attraverso cui l’uomo non ha fatto nient’altro che applicare alla realtà un rassicurante reticolo di segni, simboli, significanti e significati con cui credevamo di afferrare la Realtà, di com-prenderla. Ma, proprio in quel momento, non facevamo altro che distruggerla, allontanarla per sempre dal nostro sguardo. Per forza e per coazione allo studio monotematico sono sempre stato affascinato dalla teoria sistemica di Luhmann che riesce a costruire un quadro abbastanza perfetto riguardo il funzionamento di società e individui. Invece, riguardandolo oggi, vengo nello strutturalismo di cui era portatore l’ennesimo culmine di un “pensare positivista” che da allora, non ha mai smesso di abbandonarci. Ad ogni pagina letta, pensavo, “ma quanto è vero che l’uomo, attraverso la costruzione di sovra-strutture arbitrarie come la politica e le leggi di mercato, ha perso definitivamente la grande chance evolutiva di concepirsi e di viversi in modo libero ed autenticamente democratico?”….Di cosa ci parla, oggi come ieri, una scuola, una università ed una chiesa che si reggono sulla costruzione di realtà che si vuole far passare come naturali?...La stessa concezione di cultura applicata a concetti come “il buon gusto artistico” ed il “cattivo gusto estetico” non sono nient’altro che categorie attraverso cui si è cercato di legittimare il dominio sociale da parte di collettivi (la borghesia prima, le gradi multinazionali al tempo della Globalizzazione dei mercati, la cyberborghesia al tempo della Rete globale) senza arte ne parte ne, tanto meno, investiture dall’alto o dal basso. Il domino, la volontà di potenza, ci hanno condotti ad essere narcotizzati ed assuefatti ad un modo di vivere che, propugnando il bene globale e tutta una sfilza di diritti e spazi di libertà, ha ingabbiato l’individuo slegandolo dalla sua stessa natura, affibbiandogli una seconda pelle assolutamente credibile, ingannatrice. I giusnaturalisti (Comte, Hobbes, Lock) legittimavano il passaggio dell’uomo dallo stato di natura allo stato civile come un momento di crescita evolutiva, di cessazione delle barbarie che avrebbero condotto l’essere umano all’autodistruzione. Ma, rivedendo meglio queste righe “illuminanti”, mi accorgo le più grandi ed irreparabili barbarie l’uomo le ha condotte, non solo su se stesso, ma proprio a partire dal momento in cui si credeva evoluto. Barbarie raffinate, che nascono ed agiscono sul pensiero attraverso il linguaggio prima, la storia poi. Una storia segnata dalla graduale scomparsa di ogni possibile altrimenti. Da lotte per la sopravvivenza combattute nel campo dell’economia (le forme dell’alienazione di Marx sono esemplari), della politica, delle istituzioni di una democrazia linguistica, concettuale ma ammantata di realtà, di naturalezza. Anche il “Cogito ergo sum” cartesiano si trasforma, secondo questa prospettiva, nella maledizione dell’uomo, nell’inizio della sua fine più tragica, anzi, drammatica. Ad ogni modo, bisogna stare attenti. Abbracciare in toto i toni apocalittici di questa scuola “critica” sarebbe da sciocchi (tra l’altro, i limiti di tali teorizzazioni sono stati denunciati dagli stessi esponenti della scuola di Francoforte!). Pulirla dagli accenti distruttivi, però, permette di scorgervi molti elementi assolutamente moderni, attuali. Poiché capaci, forse, di imporsi come degli universali che accompagnano l’uomo sin dal momento in cui, per scacciare definitivamente l’angoscia della fine e il timore dell’altro, ha deciso di escogitare degli stratagemmi (verbali, comportamentali ed astratti, metafisici) che non lo hanno solo allontanato dal mondo, ma, prima di tutto, lo hanno inesorabilmente distaccato da Sé stesso, dalla sua origine naturalmente umana. Ed il prodotto di questo distacco indolore siamo anche noi. Ed è in noi, dunque, che vive e si riproduce quotidianamente questa “Dialettica dell’illuminismo”. Il più grande inganno totalitario di tutti i tempi!!.

L'informazione diventa digitale, personalizzata, partecipata e mobile. Il rapporto del "Pew Internet" c'illumina sui trend americani..

Buona parte del popolo americano in Rete è letteralmente a caccia d'informazioni, notizie, aggiornamenti dell’ultima ora. E lo fa utilizzando sempre più spesso le principali piattaforme d’interazione coordinata tra utenti, meglio noti come social networking sites. L’informazione on-line risulta essere la seconda fonte d’informazione in assoluto, dopo la televisione (nazionale e locale). Internet batte, dunque, il quotidiano stampato su carta e la crisi dell’editoria tradizionale, avviatasi già all’inizio del 2009 a seguito dell’annuncio di tagli consistenti al personale e di una colossale opera di ristrutturazione aziendale operata dal “Washington Post”, sembra divenuta quasi una realtà oggettiva. Altro dato estremamente interessante è quello che lega il numero degli utenti di contenuti informativi possessori di dispositivi mobili di ultima generazione come iPhone, Blackbarry e PDA capaci di implementare servizi di abbonamento e/o di semplice fruizione di notizie ed aggiornamenti. Un mercato informativa che, sempre più legato alla produzione di contenuti per telefonino, sembra stia sviluppando anche nel nostro paese un’importante modello di business che, solo nel corso dell’anno precedete, ha realizzato un volume d’affari di circa 30 milioni di euro. D’altra parte, c’è ed è assolutamente evidente una ottima risposta da parte del pubblico degli utenti. Molti, moltissimi sono coloro che scelgono di informarsi quotidianamente stipulando abbonamenti con versioni on-line di quotidiani cartacei fruibili anche attraverso il telefonino. In generale, sembra evidente la tendenza al multi-sourcing per quanto riguarda la fruizione giornaliera di notizie. Una fascia consistente degli intervistati in proposito, ammette di utilizzare dalle 4 alle 6 fonti per entrare in contatto con le principali notizie del giorno (dai social network come Facebook e Twitter, ai blog di giornalisti famosi ed opinion leader digitali, alla versione on line di giornali cartacei, al telefonino con hub dedicati alla lettura delle notizie). Ciò potrebbe essere interpretata, in qualche modo, come la spia di un maggior grado di libertà dell’utente di customizzare la propria agenda giornaliera. Il punto è: quanti di coloro che sfruttano molteplici fonti lo fanno con una propensione alla comparazione critica e quanti, al contrario, lo fanno solo perché sono in possesso di equipaggiamento tecnologico piuttosto strutturato?. La risposta, forse, la si ritrova da un’altra parte, in un passaggio piuttosto cruciale del rapporto: quello relativo alle motivazioni che spingono gli utenti a soddisfare il loro quotidiano bisogno informativo. Al tempo dello strapotere di tv e giornali cartacei ci si sarebbe aspettati che, in cima alle risposte, gli utenti avessero fornito ragioni “nobili” e virtuose quali la necessità di tenersi aggiornati sui principali fatti politici ed istituzionali o, magari, un innato senso di responsabilità verso sè stessi ed il proprio statuto di cittadino appartenente ad una società civile ( il “cittadino ben informato”). Certo i tempi erano diversi, ed il modello di interazione innescato dai media di massa era certamente di altra natura rispetto ad oggi. O forse era la qualità dell’informazione come prodotto giornalistico ad essere maggiormente capace di produrre conoscenza vera, animando dialettiche strutturali, sensate, attorno alle ormai romantiche “istituzioni democratiche” di una volta (concetti che, ad oggi, appaiono radicalmente mutati se non addirittura scomparsi). Certamente lo sfondo è quello di una debacle della società moderna nei suoi assi portanti, la crisi di un concetto di cittadinanza che, anche attraverso l’informazione, sembrava potersi oggettivare all’interno di quel modello di società di cui, oggi, non resta nemmeno l’ombra. Prima di andare troppo lontano, ritorniamo alla soluzione del precedente quesito. Perché, dunque, gli utenti di prodotti informativi, sono diventati veri e propri cacciatori di informazione?, perché è così importante, per chi s’informa, farlo con assiduità?. La risposta è per partecipare alla relazione. Ciò, in sostanza, significa che un numero sempre più ampio di persone tralascia tendenzialmente l’importanza dell’aspetto di contenuto legato alla fruizione di un messaggio informativo e ne esalta, ne considera essenziale l’aspetto di relazione. Ovvero, quanto quel messaggio sia capace di animare discussioni, sia on line che off line. Ma restiamo dentro la rete. Pensiamo all’uso dei social network ed a quanto essi abbiamo modificato il nostro modo di rappresentarci il modo, gli altri, le relazioni. La stessa ratio di un social network come Facebook è quella di animare contatti, sviluppare comportamenti comunicativi improntati alla costruzione di relazioni molteplici, più o meno durature, ma comunque sempre in grado di rendere tutti gli utenti partecipi (a livelli d’intensità d’uso differenti) di una rete personalizzata di relazioni ai cui nodi possiamo ritrovare fan page, soggetti pubblici, cause, parenti, amici, potenziali fidanzate e amanti. Un coacervo di soggettività che parlano, si confrontano con grandissima frequenza e su tutto. Nel rispetto di questa logica, improntata alla (ri)attivazione continua dei canali comunicativi, l’uso e la fruizione di informazione diventa sempre più spesso strumentale alla discussione, all’osservanza di questa logica strutturale dei social media. Escludendo l’esperienza in via di sviluppo del giornalismo dal basso, in cui si mantiene comunque un interesse verso il contenuto individuato come prodotto della commistione di contributi di soggettività diverse (quindi, ancora una volta, abbiamo a che fare con un “prodotto relazionale”), l’interesse principale degli utenti resta il mantenimento delle interazioni, la possibilità di trovare nell’informazione “qualcosa di cui poter discutere con gli altri”. Ciò, d’altra parte, mi porta a pensare anche al fatto che l’informazione stia assumendo un fondamentale valore discriminante perché mentre chi si informa ed arriva per primo sul pezzo è automaticamente in grado di stare dentro le interazioni di un gruppo; chi, al contrario, non è sufficientemente informato rischia di essere tagliato fuori da quello stesso gruppo, di esserne emarginato. E con conseguenze tanto più grandi e gravi quanto più quell’individuo ha affidato alla rete quote crescenti della propria esistenza, relazionale e non. Ancora da un altro punto di vista mi piacerebbe approfondire quella che sembra, almeno in superficie, una contraddizione, forse l’ultima in ordine di tempo, tra l’immagine di una rete concettualmente democratica ed aperta al confronto ed alla dialettica e questa dimensione comunitaria della fruizione di notizie che, al contrario, sembrerebbe riprodurre un livello di omologazione (quanto meno, interno ai singoli gruppi di discussione) e di tematizzazione delle informazioni che, a prima vista, potrebbe non solo ridimensionare fortemente il carattere aperto e libero della Rete (e, di conseguenza, dell’informazione fruita o discussa in rete), ma, favorire la riproduzione di vecchie logiche di classe (o, se si vuole, di differenziazione in cluster omogenei al loro interno per sesso, età, etnia, livello di reddito e scolarizzazione) nella gestione e/o nella tematizzazione (di cosa parlo ed in che termini) delle notizie.
Cyber middle-class or not cyber middle-class?. This is the question……

Pensieri e un'immagine: connessione probabile.....

Mi sono ritrovato a fine giornata, e sulla scia di un convegno dai complessi risvolti organizzativi, ad oscillare tra pensiero ed immagine. O meglio, tra un pensiero preciso ed un immagine nitida, fissa da un pò di ore davanti ai miei occhi. Il pensiero riguarda il contenuto di molti degli interventi che hanno caratterizzato il convegno di oggi (intelligenza artificiale, nuove tecnologie, potenziale socializzante di social media e social network), ovvero, una sorta di cieca fiducia nel fatto che l'introduzione di nuove tecnologie, innovazioni e quant'altro potesse incidere in modo profondo sulla società fino a modificare, cambiare i rapporti sociali, le relazioni tra gli individui. Una cosa nella quale credo, onestamente, davvero poco. Non solo perchè mi fa strano immaginare che l'evoluzione di una società possa realizzarsi quasi esclusivamente tramite l'introduzione dell'ultimo ritrovato tecnologico in ordine di tempo. Ma, d'altra parte, quando si affronta un tema del genere, non viene mai resa palese la distinzione tra pratiche di relazione inter-soggettive (magari ristrette ad una comunità e/o ad agenzie di socializzazione più o meno circoscritte) o, al contrario, si tira in ballo la società nel suo complessso così come nella sua intima complessità. Se è vero (com'è vero) il principio dell'auto-poiesi (auto/produzione), ovvero, della naturale tendenza di un sistema all'auto-riproduzione a partire da sè stesso e per se stesso. Ammettendo per vero questo principio, allora, intravedo una piccola contraddizione nell'affibbiare alle tecnologie il merito (o il demerito) di aver alimentato mutamenti socio-storici di sorta. E' certamente vero, a mio giudizio, che la collettività oggi va assumendo un peso rilevante nella realizzazione di nuovi applicativi come piattaforme per l'interazione diretta tra utenti e/o per la co-produzione di contenuti (l'esperienza pionieristica del cosiddetto "marketing relazionale" di origini scandinave docet), ma, starei attento a far coincidere questo principio immediatamente con la conclusione per cui la società, partecipando al processo creativo, ne viene immediatamente modificata, magari rivoluzionata. E' se gli oligopoli che gestiscono questi applicativi sfruttassero gli utenti per esigenze finanziarie e pura speculazione commerciale? ( Facebook e la storia di "Buzz" di Google insegnano). E se in queste piattaforme non si realizzasse niente di diverso che una nuova classificazione della società. Una classificazione che, in questo modo, non fa altro che spostarsi dall'off line all'on line. Magari modificando la propria configurazione, ma, non mi si venga a dire che questa è una rivoluzione nè, tanto meno, che le nuove tecnologie sono artefici di grandi mutamenti di paradigma. Non so, sarò pessimista sul futuro della società (o sulle impellenze capitalistiche dell'essere umano), ma, tendo sempre di più a credere che la Rete, almeno fin quando sarà caratterizzata da modelli di business tendenti all'oligopolio così come da vuoti normativi piuttosto clamorosi, non sarà nè uno spazio democratico nè un luogo in cui gli utenti-cittadini potranno contribuire in modo sostanziale ed autentico ad un cambiamento dei loro vissuti quotidiani, democraticamente. Per ora, vedo solo schemi che si riproducono, dialettiche che si accavallano ed arrovellano sugli stessi discorsi di principio, ma, in nella sostanza, nulla di davvero nuovo. A fianco al pensiero di cui dicevo prima di avviare quest'interminabile pippone c'era, c'è un immagine. E' l'immagine televisiva più triste (forse, fa a gara con molte altre in effetti!!!!): quella del Grande Fratello. Penso al pubblico, ai dati relativi all'audience del serale e penso al clamoroso cambiamento che la tv italiana è stata costretta a vivere sotto i colpi del capitalismo, della corsa sfrenata ad accaparrarsi il mercato, gli utenti. E vedo un legame non così tanto nascosto tra l'immagine ed il pensiero. Anche nella tv, nei cosumi che essa alimenta, la riproduzione di dialettiche. Anzi, Se penso a certi programmi penso che la Tv faccia leva sulla capacità di alimentare essa stessa dialettiche, riprodurre scontri che ampliano differenze culturali, ma, anche sociali. All'inizio della sua storia la televisione ha garantito l'alfabetizzazione di milioni di persone.Si. All'inizio. Perchè oggi, al contrario, sembra alimentare un processo di regressione all'analfabetismo. In cui si riproducono distinzioni del gusto, ma, anche della società nel suo complesso. A questo punto, potremmo sostenere che la tv sia effettivamente riuscita a modificare le relazioni sociali? agendo su di esse?..Boh, io non credo. Penso, invece, che si sia limitata a sfruttarle per riprodursi, per ampliare la platea di riferimento, cavalcando l'esistente o, nella peggiore delle ipotesi (non più tanto ipotesi!!), distruggendolo e ricomponendolo secondo le proprie esigenze d'immagine (e di immaginario da impacchettare e distribuire). Per cui concluderei (citandomi): "tecnologie sociali intese come apparati tecnologici in grado di produrre cambiamenti profondi (magari di segno positivo) nell'architettura delle relazioni sociali un bel piffero!"