Davide, il paese reale, la filosofia del "not in my backyard"

Saranno state le 23 circa, sto per riprendere la macchina a piazza Mercatale per rientrare a casa dopo una cena con amici, a Urbino, quando sento a un certo punto ticchettarmi al finestrino. E mi ritrovo immediatamente di fianco un ragazzo di carnagione scura che si sbraccia come per salutarmi, come se mi conoscesse da una vita. Dopo qualche attimo di titubanza, apro la portiera e il ragazzo, con un italiano stentato, mi chiede di essere accompagnato a Fermignano, un paesino ad una decina di chilometri da Urbino. “No, scusami, ma io abito da un’altra parte”; abbozzo qualche scusa, in realtà mi prende un po’ di paura. Gli guardo le mani, cerco di anticipare con gli occhi tutti i suoi gesti più piccoli. Non riesco proprio a dire di no a un ragazzo in evidente difficoltà. Lui, come per prendere in contropiede la mia necessità (non più tanto nascosta!) di rassicurazione, esibisce subito i suoi documenti appena rinnovati. Come se si trovasse ad un posto di blocco, un check point. Forse conosce bene la diffidenza delle persone di questo posto come del suo paese o, forse, più semplicemente, si rende conto che il panico e l’ansia di rientrare a casa dopo una giornata passa alla Questura di Roma lo hanno indotto a compiere un gesto troppo avventato senza averne il diritto. Insomma. Dopo qualche esitazione, gli dico di montare in macchina e che lo avrei portato io a casa. A quell’ora autobus zero. Già mi immagino, qualche minuto prima del mio arrivo alla macchina, come lo avrà trattato il tipo dei bus. D’altronde li vedo tutti i giorni, da sei anni oramai. “Scusi, per caso ancora autobus chi va a Fermignano?” - gli avrà detto Davide o, almeno questo è il nome con cui mi si è presentato – “No, a quest’ora niente (silenzio)”…..”Grasie”…Viene dalla Nigeria, 32 anni credo di aver capito. Muratore impiegato in una piccola azienda di Fermignano. Ma come ci sarà arrivato a Fermignano uno che viene dalla Nigeria?...ho perso l’occasione di chiederglielo. A quel punto, per rompere il silenzio e l’evidente imbarazzo inizio a fargli qualche domanda in inglese sulla sua abitazione, sulla vita nel piccolo paesino, sulla diffidenza della gente del posto. Ma lui, forse perché offuscato dalla gioia per aver trovato un modo di rincasare o semplicemente perché pensava che fossi uno del posto, mi descrive una vita piuttosto senza, senza grandi problemi, a parte i soldi e il lavoro. Gli spiego che il sindaco di Fermignano fa parte di un partito italiano che non ha posizioni molto tenere nei confronti degli immigrati. A quest’affermazione, il ragazzo sembra cadere dalle nuvole. E, in fin dei conti, la cosa sembra anche interessargli poco e lo capisco. Una volta riuscito a sistemarti, a metterti in regola, ad avere un lavoro onesto e a fare anche solo un piccolissimo passo per uscire da quello stato di povertà assoluta che ha tagliato come un’accetta tutta la tua esistenza fino a quel momento. Posso capire perfettamente come, a conti fatti, Davide se ne fotta altamente di essere amministrato da un sindaco dei Verdi, della Lega o di qualsivoglia altro partito politico. Questo è giochetto tutto nostro. Anzi, di coloro che, tutto sommato, riescono ad arrivare fino alla quarta settimana e chiedono a voce alta un posto riservato nei salotti. Davide è, insieme a molti altri milioni di persone, una parte integrante del nostro paese. O meglio, del paese reale. Che cerca lavoro, giustizia, aiuto e, più di ogni altra cosa, una vita di dignità e di diritto. Il ragazzo mi racconta che usa una vecchia bici per andare a lavorare. Mi dice che prende circa 50 euro al giorno anche se, tra tasse e ritenute, guadagna molto poco e sembra qusi pentirsi di essersi messo in regola. Forse, col nero, avrebbe guadagnato di più. Davide lavora, in media, tredici ore al giorno ma non tutti i giorni. Quando c’è bisogno. Poi le spese, le bollette, il viaggio periodico a Roma per rinnovare la regolarizzazione della sua presenza in questo paese. Questo incontro, fortuito per entrambi, mi ha fatto pensare ad almeno due cose. La prima riguarda la fatica enorme che avrà fatto una persona sradicata dal proprio paese e costretta all’emigrazione per sopravvivere. Ingabbiata in un lavoro che ti permette di sopravvivere, ma, non di essere felice. Di vivacchiare, ma, non certo di tornare spesso nel tuo paese d’origine. Un po’ come il classico emigrante che, da sud a nord, va in cerca di lavoro ma perde completamente le base che hanno costruito la sua persona, la sua vita, le sue emozioni. Tutto per cercare lavoro. Tutto per finirne, poi, con l’essere schiavi. In Davide, come in molti altri immigrati, ho rivisto quel velo di tristezza che nemmeno un isolato gesto di gratitudine può essere capace di cancellare. Quella tristezza sembra essersi insediata fin nel profondo della sua povera anima. D’altra parte, il gesto isolato è inevitabilmente letto come una miope espressione di pietà nei suoi confronti. Ed è questa, almeno per me, la miccia di ogni scontro, di ogni possibile incomprensione. Sta tutto nel nostro modo di fare che oscilla continuamente e in modo schizofrenico tra una accettazione sbandierata in piazza (l’uguaglianza per tutti, a tutti i costi) ed una ben più intima repulsione. E siamo ancora fermi a questo step. Parliamo molto di integrazione, della necessità di accettare una presenza straniera che oramai si sta facendo massiccia e, in pari tempo, significativa dal punto di vista occupazionale, della produzione di ricchezza e consumo. D’altra, invece, quando si tratta di avere a che fare direttamente con problemi legati alla convivenza, alla multiculturalità tiriamo fuori tutte le nostre psicosi sociopatiche, tutte le ansie di un popolo insicuro e profondamente diviso. Regionale e biologicamente provinciale. La sproporzione tra le parole dette e i gesti realizzati diventa, in questo modo, scandalosamente preoccupante. Per cui, non mi vergogno nel dire che attraverso quel passaggio dato e non negato con leggerezza ho cercato di naturalizzare un gesto che, in un altro momento della mia vita, avrei negato con altrettanta naturalezza. Qui pago lo scotto dell’ipocrisia naturale (e tutta italiana!) di cui non faccio fatica ad ammettere di esser vittima. Ma certamente non sarei andato a letto così soddisfatto come ora. Mi sento piuttosto orgoglioso. Forse è triste, forse è stupido. Forse è semplicemente la chiusura perfetta del cerchio dell’ipocrisia di chi lancia il sasso poi nasconde la mano dietro un piccolo gesto come quello che ho raccontato. Forse, tutto questo non dovrebbe nemmeno essere argomento per un post. Tuttavia, ne ho avvertito la necessità. Non tanto per “i lettori” quanto per me…E il cerchio si chiuse due volte…

1 commento:

Sofia Rondelli ha detto...

Molto bello questo articolo.
Condivido il tuo pensiero..