VECCHIA TESINA, VECCHI CONCETTI....MA ANCHE NO....

L’evoluzione del Capitalismo, lo smisurato ampliamento delle logiche legate a libero mercato e libera concorrenza hanno, nel corso del tempo, intaccato, “contingentato” dall’esterno anche le più solide istituzioni preposte a quella che, sfruttando una precisa terminologia imposta dall’argomento, possiamo definire “fonti d’informazione non contingente”. In tale definizione possiamo, tra le altre, far certamente rientrare l’Università, non tanto come luogo fisico, quanto come sistema deputato alla trasmissione di valori ed idee, argomentate secondo un preciso rigore logico-razionale, scientifico. Parlare di atenei e facoltà, quindi, significa, su tutto, tenere in massima considerazione la/le qualità della formazione, meglio definita con una terribile quanto attuale formula in uso “offerta formativa” e/o “P.O.F”, visto che formule e slogan simil/pubblicitari sono entrati a far parte di un’impalcatura pedagogico/educativa sempre più fragile e passeggera.
Se è vero, dunque, che “ (…) lo scopo principale dell’informazione non contingente (strutturata sulla trasmissione mediata di valori, ideali e Sapere) è quello dell’adesione altrettanto non contingente ad opinioni valide entro una determinata società e fortemente legate ai valori che la ispirano (…)”, allora, mi sembra doveroso aggiornare il quadro. Riflettendo da “integrato”, per dirla alla Eco, riguardo il funzionamento attuale del sistema universitario, non posso non accorgermi di quanto esso si stia gradualmente discostando (specie da un punto di vista qualitativo) dal tradizionale quanto genuino modo di concepirlo come fondamentale luogo di studio, funzionale alla costituzione di una coscienza critica e, dunque, di una personalità completa, pensante. Informare, in questo senso, coincide con l’idea di “formare”, dar forma, plasmare un individuo attraverso il testo scritto e la parola parlata, dibattuta, argomentata, riflessa. L’evoluzione di un habitus mentale sempre più improntato all’“economicità”, alla relazione costi/benefici che si possono ottenere da una determinata esperienza ha, nel complesso, agito alle fondamenta, decostruendo lentamente un’ideale formativo caratterizzato da un profondo e razionale coinvolgimento personale. Un coinvolgimento i cui benefici sono indiscutibilmente superiori ad un magro, triste calcolo relativo a: tempo impiegato, numero di “C.F.U” (le sigle tornano alla carica!) guadagnati da questo o quell’altro insegnamento o, per farci ancora male, dalle spaventevoli “Aree Modulari Integrate”, quanto di più obbrobrioso sia stato in grado di partorire il marketing con velleità di aggressività e seduzione prestato alla didattica. Shumpeter, mosso dall’intento di ricostruire l’evoluzione del marketing politico che ha radicalmente rinnovato il rapporto tra leader, partito ed elettore, lo rileggeva nell’ottica di una relazione di mercato, del tipo domanda/offerta, tra produttore e consumatore. Il politico veniva e viene, dunque, concepito in quanto produttore di un bene contingente (un programma, una promessa elettorale..) il quale cerca consensi basandosi unicamente sulla qualità della propria “offerta politica”. Dall’altra, l’elettore/consumatore, assecondando le proprie inclinazioni, necessità, aspettative e desideri accorda il proprio consenso, espresso mediante l’atto del voto/gettone, a colui/colei che, meglio di altri, si dimostra capace di soddisfarlo. Un rapporto nato su di una forte base ideologica ed istituzionale, non solo si decostruisce, ma, assorbe ed incarna alla perfezione la prospettiva del libero mercato. Libero mercato di idee ed uomini. Non a caso, oggi, si sente tanto parlare di “antipolitica” come espressione di un rifiuto, più o meno razionale, orientato verso l’intero pacchetto dell’“offerta politica”. Ebbene, anche tra maestro e discepolo, in quanto discepolo (forse non più!), avverto un lento scivolamento verso simili logiche. Il maestro, più o meno all’altezza del compito, frustrato dalle condizioni di lavoro, si percepisce come una sorta di “venditore di una cultura al dettaglio”, sempre più ridotta in pillole date in pasto a giovani uniformati, omologati dalle pressioni di una società che ha perso di vista l’importanza dell’”acculturazione” così come delle sue menti più giovani e geniali. Le recenti riforme del sistema universitario sono state concepite proprio per ridimensionare quanto di più importante attiene alla sfera dell’apprendimento. Riduzione dei tempi, riduzione degli insegnamenti, riduzione dei testi funzionali all’esame, taglio degli stipendi per precari, ricercatori ed insegnanti di ruolo. Pare che tutto vada nella direzione di eliminare l’Università o, nella più rosea delle ipotesi, ridurla ad una costosa ed inevitabile via di passaggio verso il mondo del lavoro, verso l’affermazione individuale oggettivata nella carriera professionale. Ci domandiamo perché proprio oggi che le Università si stanno gradualmente smantellando, è così forte il richiamo verso l’acquisizione del maggior numero possibile di titoli: lauree di base, specialistiche, master, corsi di formazione, scuole superiori, a noi la decisione. Tutti possiamo scegliere tutto equivale ad affermare che nessuno può scegliere niente….niente di buono. “L’inarrestabile avanzata della tecnica non poteva non coinvolgere anche l’educazione, rendendo necessarie le specializzazioni. La specializzazione e la democratizzazione hanno creato un’educazione pianificata, standardizzata che alla fine svilisce le peculiarità tipiche di ogni personalità (maestri e discepoli). Questa mancanza di personalità isola l’uomo.” Lo aliena da sé stesso e dagli altri.
Probabilmente ragiono da pessimista “integrato” che vorrebbe assurgere alla posizione di apocalittico. E, per questo, mi scopro un integrato ancor più intransigente, ortodosso. Tuttavia, vivo con amarezza questa debacle istituzionale ed accademica. Provo un profondo senso di nostalgia nelle sue parole così come in quelle del Fattorello che, restando in tema, ci descrive i tratti dell’informazione che denota il rapporto tra maestro e discepolo con una buona dose di nostalgia, esotismo.
L’assenza di tempestività, la possibilità di apprendere, annotare. Quindi digerire con la mente, dibattere, mantenere le proprie posizioni. Crollare dinnanzi ad argomentazioni inconfutabili. Ammirare la sapienza di taluni maestri, buoni o cattivi, di vita e d’accademia. Forse proprio l’assenza di un TEMPO, inghiottito dall’ansia impellente del domani, del futuro, ha finito con l’inghiottire e sputacchiare in forma di piccoli pezzetti anche un’istituzione carica di valori come l’Università. La proiezione nevrotica verso il mondo del lavoro a cui dobbiamo essere immessi o, peggio, “introdotti” come buoi al macello. L’acquisizione di titoli di prestigio fini a sé stessi o, al massimo, a coloro che li hanno assegnati. Un offerta didattica fisiologicamente discriminante per cui se sei ricco fai strada, costruisci un curriculum vitae da capogiro, ma, se non hai le possibilità economiche, sei fuori dal giro. L’influenza di mercato e danaro, la dilagante affermazione della religione laica del capitalismo ha contagiato le dinamiche più profonde legate alla socializzazione. Per cui, se l’ ”acculturazione” è rapida, contingente, discriminante, lo è, ahimè, anche la socializzazione che (il)logicamente ne consegue. La tecnica, man mano che si afferma, aliena l’uomo dalla sua personalità per isolarlo e, appunto, “standardizzarlo”. Alla lettura di queste parole, mi è subito saltata in mente la dinamica di attrazione del consenso, razionale ed irrazionale, legata alla propaganda politica anche totalitaria. Lì era un’informazione contingente che si ammantava di non contingenza; qui, appare il terribile paradosso di un’istituzione informativa non contingente interiormente contagiata dalla contingenza “pienamente dispiegata”. Scopo della (in)formazione non contingente, dunque (sulla cui credibilità inizio ad avere seri dubbi!), sembra divergere verso la costruzione di un surrogato d’uomo, ben educato ai principi del mercato, capace di rispondere in maniera rapida ed esauriente alle dinamiche di problem-solving caratterizzanti la sua vita, il suo lavoro, la sua coscienza. Compio un azzardo, spero non eccessivo, quando affermo che c’è, alla fin fine, una precisa logica attraverso cui il capitalismo, non certo etereo, cerca di insinuarsi all’interno delle istituzioni tradizionalmente deputate all’educazione di giovani menti. Ci vedo un piano programmatico ben preciso. Un destino evolutivo. Costruire il prototipo di individuo che meglio si adatti alle condizioni (mutate) della socializzazione, più o meno coatta, così come dell’acculturazione. Cultura è sapere in pillole, o meglio, in moduli ed aggregati di moduli. Cultura è risparmio di tempo, economicità: minimo impegno, massimo guadagno. Cultura è l’accumulazione di un utile reinvestibile nel lavoro, nella propria carriera. Per prevalere sugli altri, per anticiparli. Si frequenta l’Università, si seguono corsi, ci si appassiona. Ancora. Ma la passione non basta. Bisogna ricorrere alla ragione per argomentare in maniera lucida e senza limiti di spazio/tempo. La costruzione di un’identità mediata dai libri, dalle parole dette e recepite.
Università, oggi, vuol dire investimento, labile impegno, interesse latente. Passione, trasporto monotematico, orientato, “specialistico”. Provo, spesso, la sensazione di non sapere dove lo studio mi porterà. E’ un sentire positivo, eccitante, ma, anche profondamente angosciante, nero. Vorrei scorgere un senso ultimo dietro quello che apprendo: piano provvidenziale. Vorrei chiedere di più, per saperne di più. Di più di tutto, di più di me stesso. Lo smarrimento, l’alienazione frustrante, l’angoscia senza valvole di sfogo sono gli effetti collaterali, indotti dall’affermazione di spietate logiche di mercato. Più sei coinvolto in lavori di gruppo, più allontani lo spettro della solitudine, dell’assenza di forti, stabili punti di riferimento. E’ un sentire condiviso da molti della mia generazione e la cosa mi aumenta la paura, l’angoscia. L’Università di un tempo insegnava a pensare ancor prima che ad argomentare. Insegnava a reagire con la forza delle proprie idee. Idee che aggregavano, univano davvero. Oggi percepiamo il male, ne conosciamo le dimensioni ed i margini di miglioramento. Ma, al tempo stesso, viviamo di rabbia frustrata, impotenza perenne. Perché siamo soli, o ci percepiamo tali. Ci sentiamo abbandonati a noi stessi proprio quando ci viene richiesto di avere fiducia “nei nostri mezzi”, nelle nostre attitudini. Corsa contro il tempo, reazione agli stimoli esterni, ansia da prestazione (non solo professionale), incertezza invadente, mancanza di autentici “maestri” di vita. Questi i principali ingredienti che condiscono una vita, nel complesso, sapida. A tratti, davvero amara.
Tutto questo, in fine, spiega la profonda crisi di valori stabili su cui, normalmente, si regge un’organizzazione sociale, statale. Se non si è più capaci di informare circa i valori, le credenze ed i costumi che sorreggono l’impalcatura di una collettività; com’è possibile pretendere che tali items restino immutati, “cristallizzati” nel tempo, attraverso le generazioni?. La realtà è cambiata o, tutt’al più , è nel pieno della sua più profonda trasformazione. Solo percependo l’entità e le caratteristiche del mutamento, a mio parere, è possibile ridisegnare un rinnovato rapporto tra maestro e discepolo. Un rapporto forte e razionale, capace di difendersi dagli attacchi (non solo esterni) provenienti dalle strategie di mercato, così come da una società sempre più sul piede di una guerra fratricida e suicida. Per ora, dunque, i vecchi maestri resistono in trincea. I giovani discepoli, “maestri del futuro”, invece, si sono volatilizzati da tempo. Purtroppo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sulla parcellizzazione dilagante nei corsi di laurea sai che sono d'accordo. Anche se noterei che quando noi abbiamo cominciato la triennale avevamo ben trenta esami da tre crediti. Già l'anno scorso erano stati reintrodotti corsi da 9 cfu: segno che ci si è accorti che qualcosa non andava.

Per il resto, lascia perdere Fattorello: l'idea di un'istituzione che trasmetta il sapere, che formi la personalità, è quantomeno ottocentesca. Il rapporto discepolo/maestro? A nessuno è negata la possibilità di seguire gli esempi che crede. Ma ora il sapere non è più nelle mani di pochi, già un secolo fa Simmel diceva che la cultura oggettiva aveva raggiunto dimensioni impressionanti a confronto di quella soggettiva, la società è differenziata per funzioni: credo che sia ora di abbandonare l'idea che siamo vasi vuoti da riempire di "sapienza" dai libri. Cogliamo la potenzialità della modalità 'multitasking'.
I valori collettivi non cessano di esistere, solo che cambiano e vengono trasmessi altrimenti: ai singoli il giudizio sulla loro bontà.