SOCIAL SHAPING E CULTURA ISTITUZIONALE...

Dopo la lezione di oggi riflettevo, punto, sulla questione dell’uso sociale dei mass media. Possiamo, innanzi tutto, mettere a confronto due teorie. La prima, istituzionale, è relativa all’imposizione sostanzialmente verticale delle tecnologie: dall’alto al basso. C’è un’industria culturale, per prendere in prestito qualcosa dalla scuola di Francoforte, che produce contenuti culturali e strumenti che li veicolino e, dall’altra, una massa indistinta di individui che fruisce o, magari, rielabora in una chiave più o meno personale, quegli oggetti così come rielabora quegli stessi mass media, ritrovati tecnologici, innovazione tecnica applicata alle dinamiche d’uso, socialmente rilevante ed imposto dall’alto. L’altra teoria, di fatto, capovolge la suddetta, affermando la capacità dei soggetti sociali (individui, forme di aggregazione societale), non solo di produrre contenuti culturali,ma, al contempo, la capacità di innovare, aggiornare e creare mass media quasi naturalmente, sulla base di esigenze quotidiane che, in un secondo tempo (dunque, al contrario di quanto affermato in precedenza, in relazione alla teoria della creazione istituzionalizzata), vengono assoggettati ad esigenze di mercato e strategie di marketing tecnologico e tecno/sociale.
Possiamo, prima di tutto, tirare in ballo la teoria del flusso comunicativo a due fasi che, a ben vedere, mi pare una giusta via di mezzo tra l’eccessiva fede nella scienza (portato della prima teoria) e l’eccessiva fede laica nelle capacità creative e collaborative (oltre che in una positivista virtuosità) del corpo sociale. Il flusso comunicativo a due fasi, elaborato in relazione ad una serie di studi sociologici condotti negli Stati Uniti a metà degli anni quaranta, appuntava la propria attenzione sulle dinamiche di orientamento/ induzione al voto nella società americana di quegli anni. La suddetta, di fatto, considerava (si, in materia elettorale ma il discorso è, altresì, sovrapponibile ad una qualsiasi dinamica di trasmissione di know how tecnologici dal creatore all’utilizzatore, il tutto cementato e garantito da esigenze commerciale naturali ed indotte) estremamente rilevante i cosiddetti “portatori di opinione prima”, più comunemente noti in qualità di “opinion leader e/o opinion maker” che rappresentano niente altro che l’esatto simmetrico del “first adopter” di una certa tecnologia o, in generale, di una specifica disciplinare, tecnologicamente orientata, di produzione di contenuti culturali per una fruizione personale, di massa o sia personale che di massa, allo stesso momento.
L’opinion leader è individuato, come il nostro “first adopter”, sulla base di una serie specifica di requisiti socio-economico-culturali che divengono ancor più rilevanti e qualitativamente difficili da reperire quanto alto è il livello di complessità della tecnologia presa in considerazione ( d’altronde è anche vero che ogni mass media o pseudo/mass media socialmente (ri)elaborato abbia affrontato e superato una prima fase di “alta qualità e ricercatezza nell’uso” per divenire, solo in un secondo momento, un mezzo tecnologico “ con una larga possibilità d’uso” e, dunque, con infinite possibilità di rielaborazione pratica). Il leader d’opinione o il nostro consumatore primo esiste, dunque, perché è sempre esistito e perché garantisce un fondamentale filtro di razionalità all’evoluzione di tecnologia ad alto impatto sociale (si pensi al passaggio dal cellulare al black barry, dall’uso passivo di internet alla creazione di contenuti e profili personali che gestiscono buona parte della nostra vita relazionale). Un filtro razionalizzante, rassicurante, una vera e propria attività di beta-testing sociale.
L’opinion leader, inoltre, ha dalla sua la grande capacità di persuasione del resto della società. Per cui, maggiore sarà la sua attività di propaganda, maggiori sono le risposte affermative/positive da lui ricevute, maggiore saranno le possibilità che il nostro creatore di opinioni venga conteso dalle grandi multinazionali della produzione/ implementazione di software avanzati così come di programmi elettorali innovati e di rottura, reale o presunta che sia. Non esistono differenze vincolati a mio modo di vedere. Il meccanismo è lo stesso, le provabilità di impatto sociale, le aspettative e le rielaborazioni dal basso che producono l’atteggiamento e il comportamento nell’atto del votare o, se si accetta la premessa, del consumare rendono i due discorsi ( quello sulla politica e la comunicazione di idee politiche da una parte e quello sulla diffusione di nuove tecnologie con tutto il carico di margini d’impiego possibili dall’altra) praticamente intercambiabili. Ed il denominatore comune lo ritroviamo in due concetti, madre e figlia ed entrambi partoriti dalla società moderna e perfezionati dalla tarda modernità: il mercato o, più nel dettaglio, il rapporto di forza socialmente vincolante tra domanda e offerta. Nel mezzo, in una sorta di limbo dai contorni poco noti, ci sono i nostri opinion leader o consumatori primi, certamente più di là che di qua. Per cui si, punterei anch’io a dare un certo peso alle capacità creative de “consumatore ultimo”, ma, dall’altra parte, credo che l’alternanza di tecnologie, dinamiche di produzione con tutto il carico di contesti d’uso sia ancora, fortemente condizionato dall’alto, da chi vive e lavora non tanto dietro la produzione di tecnologie in assoluto, quanto sulla continua ed affannosa ricerca di suggerimenti su contesti d’impiego. Suggerimenti che, purtroppo, continuano ad avere l’impatto e l’effetto sociale di veri e propri dictat.

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